Si dirà che era la Siria. O i paradisi fiscali, il nuovo ordine che deve regnare sul sistema fiscale, oppure il grande affare di un mercato transatlantico. La cosa più importante di questo G8, invece, non è stato uno dei temi in agenda ma l’evidenza della scissione fra un mondo – il nostro – che seppure in crisi economica e morale, guarda al futuro; e un altro – quello dei russi ma potremmo dire di altri – che crede nell’immortalità di un vecchio ordine.
Non si può dire che la Russia abbia completamente torto riguardo alla Siria. Ancor meno che gli americani abbiano del tutto ragione. Assad sarà un dittatore ma rappresenta una parte della Siria; dall’altra non esiste ancora una alternativa meritevole di fiducia. L’Iran ha il diritto di sedere come gli altri al tavolo di un negoziato perché la crisi siriana ha a che vedere con i suoi interessi nazionali. Non è parte del problema, come si diceva una volta, ma della soluzione di quel conflitto. Ancor più adesso che da Teheran vengono segnali promettenti.
Su questo la Russia ha giocato un ruolo da protagonista del G8. Anzi, il protagonista, a leggere buona parte della stampa. Il fatto è che la Siria non era la cosa più importante del vertice. E’ una tragedia da fermare con urgenza ma non è una vicenda che cambierà il mondo: la sua continuazione potrebbe contagiare altri Paesi ma la malattia, considerando che ormai in Siria nessuno può vincere e nessuno perdere, potrebbe anche cronicizzarsi e consumarsi lentamente negli anni, dentro le sue frontiere.
In ogni caso la Siria – a costo di apparire
cinico – non è il futuro del mondo. E’ piuttosto il suo passato: l’ennesimo
dramma di una regione che i conflitti li sclerotizza, un confronto giocato con
le modalità del domino come ai tempi della Guerra fredda. Su questo la Russia
ha cose da dire, sul resto no.
La Russia può tenere Bashar Assad in piedi e
svelare la mediocrità americana in Medio Oriente. Ma non ha voce in capitolo
sulla trattativa attorno al grande trattato commerciale Usa-Europa. Un giorno
non lontano potrebbero esserci due grandi poli di scambi e di ricchezza: uno
transatlantico euro-americano e uno in Estremo Oriente diretto da Usa e Cina.
Ma la Russia, fuori dall’uno e dall’altro, non
ha niente da offrire oltre ai missili alla Siria. Continua a recitare il ruolo
della superpotenza sul palcoscenico retrò della Guerra fredda. Il pubblico, intanto, affolla l’altro teatro
in attesa di uno spettacolo diverso: quello delle opportunità commerciali,
delle tecnologie, di un nuovo ordine finanziario più trasparente e democratico.
Un ventennio fa la Russia fu invitata al G7
per rispetto delle paure che aveva sollevato per mezzo secolo e come premio
alla problematica democratizzazione di Boris Eltsin. E’ una eredità della
storia: come i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu,
vincitori di una grande guerra ma pur sempre combattuta 70 anni fa.
Ai mattoni necessari per costruire un nuovo
ordine economico che sia più trasparente, equo, democratico, Putin può
aggiungere solo zeppe: oligarchi politicizzati, opacità finanziaria, produzione
petrolifera trasformata in arma strategica, un settore manifatturiero
insignificante. Senza il petrolio e l’arsenale nucleare, la Russia di Putin non
varrebbe molto. L’orgoglio, le qualità, la grandezza di una nazione sono mortificate
da uno sciovinismo alla sovietica che quel grande popolo non merita. La Russia
poteva diventare una nuova Atene del mondo, invece è ancora una vecchia Sparta.