Dopo la furia delle Primavere arabe, la questione palestinese volutamente dimenticata torna al centro del Medio Oriente e della diplomazia globale. C’era sempre stata, sotto traccia: l’occupazione israeliana continuava, le colonie crescevano, Hamas si armava di razzi sempre più efficaci. Ma le rivolte di quella regione, la distrazione americana e la convinzione israeliana che il suo problema con la Palestina potesse essere rinviato all’infinito, l’avevano retrocessa a questione ipotetica.
E’ una conseguenza di quelle Primavere, quantomeno di quella egiziana in buona parte realizzata (i 4,8 miliardi di prestito del Fondo Monetario Internazionale sono un atto di fiducia) se oggi si riparla di Stato palestinese. Con tutti i diritti di Israele in questo conflitto nel quale nessuno ha solo ragione né solo torto, non è ammissibile che non si trovi una soluzione al più antico dei conflitti ereditati dal passato: sopravvissuto agli imperi che hanno governato quella terra, alla Guerra Fredda e arrivato intatto, come se niente lo possa scalfire, al terremoto delle Primavere.
Se dura da così tanto tempo è perché non si tratta solo di uno scontro fra due affermazioni nazionali: è anche un conflitto etnico aggravato dall’elemento religioso. E perché a una forza militare israeliana senza pari, corrisponde la tenacia palestinese a non ridursi a minoranza senza terra come altri piccoli popoli del mondo.
Ma per quanto difficile sia questo conflitto,
non è accettabile che non abbia una soluzione. I palestinesi della Cisgiordania
e di Gaza devono trovare un comune denominatore, e una volta raggiunto,
rinunciare a quel massimalismo che da decenni limita le loro possibilità di
diventare Stato. Israele deve avere il coraggio di riprendere il difficile
cammino della pace, ammettendo che come tutti i risorgimenti nazionali, anche il
sionismo deve diventare storia e non più quotidianità di una politica dagli
obiettivi inespressi. I nuovi regimi arabi devono dimostrare la loro giovane
maturità e formare un fronte moderato e realista che guidi a una soluzione. Gli
Stati Uniti che si sono assunti il ruolo di “honest broker”, di mediatore
equidistante, devono davvero diventare equi, mettendo finalmente le
rivendicazioni palestinesi sullo stesso piano di quelle israeliane fino ad ora,
invece, avvantaggiate.
Quello
che è stato firmato al Cairo è solo una tregua che può durare un giorno, un
mese o un anno. Qualsiasi cosa accadrà, l’unica certezza è che la questione
palestinese è tornata al centro delle preoccupazioni regionali e
internazionali. E’ uscita dal congelatore nel quale la diplomazia mette le cose
che non sa risolvere, e non vi rientrerà. Per questo occorre che la tregua,
fragile per definizione, venga corroborata dalla ripresa di un processo
politico che non è un sogno impossibile.
Tutte le volte che israeliani e palestinesi
si prendono a bastonate, le opinioni pubbliche reagiscono con rassegnazione:
“pace impossibile”, “non si metteranno mai d’accordo”, “serve un miracolo”. Non
è così: la soluzione è già stata cercata, trovata, negoziata, scritta in ogni
suo dettaglio. E archiviata perché di fronte alla possibilità di una soluzione
perfino gli israeliani e i palestinesi ne hanno avuto paura. Occorre solo la
volontà dei leader e dei popoli interessati, il resto c’è tutto.
Per decenni la lotta per la liberazione
della Palestina è stata un pretesto di facile consenso per i vecchi regimi
arabi che offrivano a Israele un pretesto per non affrontare la questione centrale
del suo stesso futuro: uno Stato palestinese. Il lungo e drammatico cammino di
Israele verso la pace, frontiere sicure e dunque la sua esistenza, non saranno
mai realizzati compiutamente fino a che non nasce, accanto e in pace, uno Stato
per i palestinesi.