Giovedì, provincia di Kandahar, elicottero abbattuto, sette soldati americani morti. Venerdì, provincia di Farah, un poliziotto afghano addestrato dalla Nato uccide altri due militari americani. Ma se cercate qualche riferimento di questa guerra tra i temi e nei comizi della campagna presidenziale, ormai vicina al suo climax, non troverete nulla.
“Dopo 11 anni, 2mila vite americane, migliaia di miliardi di dollari e disabilità inguaribili per molti soldati che hanno combattuto, noi americani siamo ancora in guerra in Afghanistan. La guerra è diventata un fastidio che nessuno vuole ricordare”, ricorda Linda Bilmes di Harvard che con il Nobel per l’economia Joe Stiglitz qualche anno fa scrisse “The Three Trillion Dollar War: The True Cost of the Iraq Conflict”.
Secondo uno dei tanti sondaggi che raggiungono tutti la stessa conclusione, il 27% degli americani sostiene la guerra in Afghanistan, il 66 vi si oppone. Barack Obama ha già annunciato che entro il 2014 tutto finirà – almeno per i soldati stranieri – e che nel Paese resteranno “solo” 68mila uomini e donne. Giusto per non far cadere subito Kabul/Saigon e il suo corrotto presidente, nostro alleato. Mitt Romney continua invece a sostenere che con i talebani non si tratta, li si sconfigge. Non spiega come: è l’ottuso negazionismo che ingrassa tutti gli estremisti, da Hamas a Hezbollah.
La ragioni di tanto disinteresse per una guerra nella quale continuano a morire giovani americani, sono diverse. Psicologicamente, la guerra con arabi, islamici, estremisti con turbante e tritolo (a volte finiscono in mezzo anche i poveri sikh), è finita il giorno in cui è stato ucciso Osama bin Laden. Ma la causa primaria, si dice come per rivelare l’acqua calda, è la crisi economica. E’ falso. Secondo Linda Bilmes, che di conflitti e denaro se ne intende, la guerra in Afghanistan è già costata 500 miliardi; e un Congresso litigioso che da tre anni non riesce a mettersi d’accordo sul Bilancio dello Stato, ha già stanziato altri 200 miliardi per il biennio di guerra 2012/13. Se questa fra Obama e Romney fosse solo una campagna per economia e occupazione, qualcuno si sarebbe chiesto perché continuare a spendere tanti soldi per un conflitto che non si può vincere: “come gli inglesi, i russi, i greci, i romani, gli unni e molti altri” in Afghanistan, ricorda ancora Linda Bilmes.
Secondo me la vera ragione di tanto disinteresse – o di un finto disinteresse dettato dal senso di colpa – è un’altra: sono state combattute troppe guerre per soffermarci su una sola. Quando ero un giovane corrispondente da Mosca negli anni di Gorbaciov, assistendo in presa diretta alla fine della Guerra fredda, provavo una gioia indescrivibile. Pensavo ingenuamente che la Storia stesse davvero finendo, come scriveva Francis Fukuyama: mai più guerre, finalmente.
Dal 1990 a oggi ho visto sempre in presa diretta più conflitti di quanti non ce ne siano stati nei precedenti 45 anni di Guerra fredda. Golfo persico, Somalia, le varie guerre jugoslave, Cecenia, Intifada, Torri gemelle (anche quello è stato un piccolo e decisivo conflitto), Afghanistan, Iraq, Israele ed Hezbollah, Israele e Gaza, Libia, Siria. Sto sicuramente dimenticando qualcosa.
Intanto in Occidente, per motivi di denaro, efficienza e sviluppo tecnologico, tutti i Paesi hanno trasformato le loro forze armate da eserciti di popolo a eserciti di professionisti. Se un giovane elettricista o un ingegnere viene d’improvviso chiamato sotto le armi e finisce al fronte –e se quel giovane è tuo figlio – il conflitto ti riguarda di più. Se ci vanno dei professionisti per libera scelta, sapendo che avranno un’indennità più alta, beh, rischiare la vita è parte del gioco, una postilla non scritta nel contatto d lavoro. Amor di patria, coraggio, sacrificio sono sempre necessari, anche per i travet della guerra. Ma partendo per il fronte quelle donne e quegli uomini sanno cosa vanno a fare. E’ questa miscela di troppe guerre ed eserciti professionali, che abbassa la soglia dell’attenzione e della nostra solidarietà. Durante la campagna presidenziale americana ma anche da noi in Italia, quando muore un soldato.