Sudafrica, strage figlia del mancato sviluppo

«Al momento l'economia sudafricana è tutt'altro che ideale. L'African National Congress dice che c'è ancora molto lavoro da fare per garantire il progresso. Preoccupa particolarmente la persistenza di una grande disuguaglianza di reddito e di alti tassi di disoccupazione fra i giovani», dice Mwangi Kimenyi, direttore di Africa Grow Initiative. La spiegazione del massacro alla miniera di Marikana è tutta qui: nelle scarne, un po' burocratiche ma precise parole di un economista.
Qualcuno ha paragonato i 34 morti, i 78 feriti e i 259 arresti davanti ai pozzi di Lonmin, terza impresa produttrice mondiale di platino, all'eccidio del 1960 a Sharpeville: la township nera dove incominciò la lotta all'apartheid. La segregazione razziale non c'entra più, né è in ballo la questione della nazionalizzazione delle miniere: anche la conferenza politica dell'Anc, il mese scorso, ha ribadito che nel settore chiave dell'economia sudafricana vige come un mantra l'impresa privata.
«Non c'era assolutamente altro che la polizia potesse fare», si giustifica Nathi Mithethwa, il nuovo ministro di Polizia: il predecessore ha dovuto dimettersi per corruzione. Fra le cause del massacro c'è anche la concorrenza fra gruppi rivali per il controllo dell'Unione nazionale dei minatori: centro di potere fondamentale per il controllo del Cosatu, il grande sindacato sudafricano a sua volta decisivo per stabilire chi comanda nell'Anc.
Le vere ragioni di uno sciopero finito con i minatori armati fino ai denti e la polizia che spara ad altezza d'uomo non sono nemmeno nelle rivendicazioni salariali ma, ancora, nell'analisi di Mwangi Kimenyi. L'economia sudafricana va male: una crescita insufficiente del 3,1% nel 2011 e del 2,7 nel primo trimestre del 2012. L'Anc non è capace di esprimere una politica che garantisca sviluppo. Fra i Paesi Brics, il Sudafrica resta con gli squilibri più insostenibili fra pochi ricchi e tanti poveri.
Dal 1994, quando Nelson Mandela vinse le prime elezioni libere per tutti i cittadini del Sudafrica, i Governi hanno costruito 3,1 milioni di case, dato elettricità all'80% dei 50 milioni di sudafricani e acqua corrente all'88; il 98% dei bambini frequenta la scuola dell'obbligo; ogni anno vengono distribuiti assegni sociali a 13 milioni di famiglie. Ma non basta. Il Black Economic Empowerment non ha mai funzionato come doveva. Anche nel settore minerario la proprietà nera all'8,9% è inferiore all'obiettivo del 14 nel 2009 e lontanissima dal 26 nel 2014. C'è una borghesia nera che cresce ma le riforme hanno soprattutto prodotto i "gatti grassi", i furbi che con la corruzione e le relazioni politiche s'impossessano delle opportunità del Black empowerment; e i "black diamonds", un livello nettamente più alto, i miliardari. Cyril Ramaphosa, Tokyo Sexwale, Patrice Motsepe, per fare qualche nome. Tutti molto vicini all'Anc e sempre più simili nelle ambizioni agli oligarchi russi che ai volani di crescita nera che dovevano essere.
Le statistiche minerarie sudafricane assomigliano a quelle degli idrocarburi del Qatar. Tutto incominciò sull'altopiano del Witwatersrand nel 1886, quando George Harrison letteralmente inciampò su una pepita d'oro. Riserve di 60 minerali diversi per 2.500 miliardi di dollari; primo produttore al mondo di manganese e platino; fra i primi di oro, vanadio e cromite; quarto di diamanti. L'oro è un terzo dell'export nazionale; il settore minerario un terzo della capitalizzazione della Borsa di Johannesburg. Oltre al 18% del Pil (8,6 diretto, il resto indiretto) e a 5 milioni di posti di lavoro.
Per essere qualcosa di simile al Qatar, manca solo una politica e una vera leadership. Quando Mandela prese il potere, i bianchi, il 13% della popolazione, possedevano l'86% delle terre e il 90 della ricchezza nazionale. Mediamente, guadagnavano dieci volte più dei neri. Il primo piano di riforme economiche fu il Recostruction and Development Program: il cuore erano le spese governative per l'educazione. Due anni dopo, nel 1996, partì il Growth, Employment and Redistribution Strategy: liberalizzazione dell'economia, creazione di lavoro, investimenti e commerci. La filosofia di Mandela, nuova nella decolonizzazione africana, era che il Sudafrica sarebbe cambiato con le riforme, non con la rivoluzione.
È questo che ha reso le cose più difficili. La scelta di Mandela era un'arma troppo sofisticata per scardinare la monumentale eredità dell'apartheid: richiedeva molto più tempo del populismo di cui son fatte le rivoluzioni. Thabo Mbeki estese le riforme di Mandela, applicando una rigida disciplina fiscale. Ora Jacob Zuma non sa cosa fare. È solo in mezzo al guado fra l'impopolare continuazione delle riforme dei suoi predecessori e la voglia di populismo, molto forte nella base del partito. Più di una volta ha garantito che le miniere non saranno nazionalizzate; ma il giorno dopo averlo ripetuto, l'Anc torna a parlarne, disorientando gli investitori.
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