Non avrei voluto dedicare un altro post a Bibi Netayahu e Israele. In realtà non c’è molto da dire di una delle realtà attualmente più statiche del Medio Oriente. Qualche israeliano la definisce stabile. Secondo me invece è statica. I problemi ci sono: la questione palestinese e l’occupazione, le primavere arabe, la tenuta della democrazia israeliana, il confronto fra laici e religiosi nello Stato ebraico. Ma vengono ignorati, congelati nell’attesa che esplodano.
Torno su Israele per “completezza d’informazione”. Nell’ultimo post avevamo parlato di elezioni anticipate. In effetti domenica scorsa Bibi le aveva annunciate; c’era anche una nuova legge pronta per essere presentata alla Knesset, che stabiliva la data del 4 settembre. Vecchi e nuovi partiti avevano già incominciato ad avviare i motori della campagna elettorale. Inaspettatamente, il giorno successivo Netanyahu ha annunciato un accordo con Kadima, la maggiore forza di opposizione, che entra nel già affollato governo guidato dal Likud. Niente elezioni, si torna alla scadenza naturale della legislatura, fra un anno e mezzo. Come ai tempi dei grandi conflitti mediorientali, la maggioranza è pletorica: 94 dei 120 seggi alla Knesset. All’opposizione restano solo i laburisti (8, mai così pochi), la sinistra di Meretz e i partiti arabi.
Per la politica israeliana (simile all’italiana per frazionismo, rissosità e personalismi) un anno e mezzo è un lasso di tempo infinito. Per questo, alla fine, fa comodo quasi a tutti tornare al calendario elettorale naturale. Netanyahu si troverà contro un Barack Obama rieletto. Ma quando domenica scorsa ha convocato il vertice del Likud per annunciare il voto anticipato e si è trovato di fronte una sala piena di coloni e uomini con la kippà (gli ultra nazionalisti religiosi), ha pensato che le elezioni avrebbero potuto essere un problema. Il dilemma di Israele non sono tanto gli Haredim, i timorati di Dio, gli ultra ortodossi, parassiti dello Stato che ne pretendono i benefici senza pagarne un prezzo (tasse, rispetto delle leggi, esenzioni di leva). Il problema sono i nazional-religiosi: quella minoranza di grande potere scesa dalle colonie che pericolosamente connette sionismo e Dio, che sta occupando i gradi intermedi dell’Esercito e che ha un controllo spropositato sul Likud.
A Bibi Kadima serve per aumentare il peso dei laici. Ma anche a Kadima serve entrare nel governo: da quando Shaul Mofaz ne ha preso la guida al posto di Tzipi Livni, nei sondaggi il partito scende da 28 seggi a 10. Mofaz ha bisogno di tempo. Anche Ehud Barak ne ha bisogno: Mofaz punta al suo dicastero, la Difesa, e Barak uscito un anno fa dal Labour, non ha più un partito per difendere il suo posto di potere. Il rinvio delle elezioni serve a Tzipi Livni per riorganizzare il suo futuro politico e ai laburisti per giocare utilmente il ruolo di grandi oppositori.
Queste sono le grandi manovre interne: complicate e di scarso interesse per chi non sia israeliano. Quello che conta per la comunità internazionale sono gli effetti esterni: sulla pace con i palestinesi, sulla guerra con l’Iran. Riguardo al primo punto c’è qualche grado di ottimismo: con l’allargamento dell’esecutivo, aumentano i centristi e coloro che in nome della salvaguardia della “natura ebraica” di Israele ritengono necessaria la soluzione dei due Stati.
Sul secondo punto, il bombardamento dei siti nucleari iraniani, c’è invece qualche grado di preoccupazione. Gli Stati Uniti hanno “chiesto spiegazioni” sul significato degli ultimi avvenimenti in Israele. Per entrare nella maggioranza Mofaz avrebbe accettato di aderire alla volontà interventista di Bibi e Ehud Barak. In Israele di solito i partiti fanno fronte e risolvono le loro dispute nell’imminenza di un conflitto: il pericolo nel pericolo è che Netanyahu potrebbe decidere di colpire l’Iran fra settembre e ottobre per rendere – lui – difficile la campagna elettorale di Barack Obama.