La grande recessione della democrazia

Greek-Democracy-History-1Se dovessimo pensare solo ai nostri risparmi, alle opportunità dei nostri figli (disoccupazione giovanile al 31%), al futuro economico della nazione, in questi tempi di recessione qual è il modello che, dobbiamo ammettere, è il vincente? Il capitalismo autoritario cinese. “The China Model”.

  Noi parliamo di deficit e loro di surplus; la nostra borghesia si restringe e la loro si allarga; noi constatiamo quanto sia difficile cambiare una classe politica e loro lo fanno ad ogni generazione. Non cambiano partito, solo i dirigenti: non è democratico. Ma ora che siamo in crisi ci viene in mente che il potere di Jiang Zemin (1993/99) è durato meno di quello di Silvio Berlusconi. Il primo non può tornare, il secondo si.

 Le Primavere arabe ci avevano convinto che nel mondo la democrazia avanza. Per il quarto anno consecutivo Freedom House ha scoperto che la democrazia nel mondo invece regredisce. Crisi del nostro modello economico è anche crisi di quello politico. Non per noi che continuiamo a credere nella bontà e nella forza della democrazia: sebbene l’involuzione autoritaria ungherese sveli che il male circola anche nel nostro campo. Ma per gli altri si. Il Sudafrica di Jacob Zuma, che è sempre meno quello di Nelson Mandela, per due anni di fila ha negato il visto al Dalai Lama. Lo ha fatto per fare affari con la Cina. L’idea che la Nazione Arcobaleno si trasformi in un nuovo modello “pragmatico come la Cina”, è un’idea che si sente sempre più spesso a Johannesburg.

  Il Council on Foreign Relations di Washington ha fatto uno studio in 20 nuove democrazie nate attorno all’anno 2000, quando per la prima volta nella storia nel mondo c’erano più governi eletti che dittature. Il Council ha scoperto che in ogni luogo in cui la crescita economica è calata e le disuguaglianze aumentate a causa della crisi globale, il sostegno alla democrazia è calato.

   Può sembrare la scoperta dell’acqua calda. Invece è una constatazione importante: prima i Paesi poveri credevano che la democrazia fosse la soluzione per un’economia sana. Ora identificano la loro crisi con quella del capitalismo democratico e pensano che la soluzione sia il ritorno a un modello autoritario. Vista la lentezza con cui i governi democratici danno risposte economiche, la maggioranza degli indonesiani ora crede che si stesse meglio ai tempi del dittatore Suharto. Nelle Filippine e in Pakistan spesso è la comunità del business a invocare il colpo di stato militare.

  Le Primavere arabe ci danno speranza ed è gusto averne. Ma qualche preoccupazione è altrettanto giusta. Ci vorrà tempo per capire come si comporteranno i governi dell’Islam politico democraticamente eletti. E’ il significato della democrazia che tuttavia potrebbe essere un po’ diverso. Se per esempio il parlamento egiziano, eletto democraticamente, democraticamente vota il taglio delle mani per i ladri, è democrazia?

   Fino ad ora abbiamo fatto il giro del mondo. Veniamo adesso a casa nostra e guardiamo in faccia al nostro senso democratico. Nel 2013 Mario Monti lascerà e noi saremo chiamati a votare i partiti di prima con le stesse facce e la stessa mediocrità che già conosciamo. Chi onestamente ha voglia di partecipare di nuovo? Ponendo la domanda capisco che è una tentazione antidemocratica. Fossimo anche noi vittime di una sindrome cinese?

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  • doretta davanzo poli |

    tu ci fai capire che tutto può cambiare molto in fretta: e perchè non qui? Il 2013 è lontano e ne possono succedere di cose

  • Scior Carera |

    Che le democrazie occidentali stiano sperimentando una crisi non solo economico finanziaria è un fatto più che accertato; direi empiricamente osservato. Così come appare che democrazia e prosperità fino a ieri sono andate a braccetto. Nell’articolo si ventila che la democrazia sia un effetto della prosperità, motivandolo con il fatto che la prosperità si ottiene anche senza democrazia (Cina & company)e che le democrazie occidentali non sono più in grado di generare prosperità. Da ciò si deduce che la democrazia non sia un motore della prosperità.
    Mi permetto una diversa categorizzazione e sequenza dei fatti:
    1) le economie emergenti diventano sempre più ricche per effetto dell’applicazione dei principi dell’economia occidentale, nonostante le disfunzionali organizzazioni statuali locali. Non a caso tali organizzazioni si stanno riorganizzando secondo criteri democratici
    2) la parola democrazia sembra assumere un colore politico. Ma si tratta invece dell’applicazione del semplice principio socio-economico della “fiducia reciproca” fra persone. Fiducia che possiamo anche chiamare affidabilità reciproca, etica orizzontale (contrapposta alla morale verticale, religiosa, ideologica,oligarchica, dittatoriale, ecc). Insomma il gioco a “valore aggiunto” contrapposto a quello primitivo “del nomade” che diventa ricco solo appropriandosi dei beni altrui (gioco a somma zero). Quindi etica. Fattore fondante che dà origine a organizzazioni orizzontali e democratiche
    3) le democrazie occidentali hanno il fiato corto perchè non sono ancora abbastanza orizzontali. Per esempio l’abnorme debito pubblico viene generato non dalle necessità, ma dall’attitudine di comprare il voto scambiandolo con servizi e finanziamenti. Chi compra? l’eligendo. Chi paga l’eligendo col voto? l’elettore. Questo genere di mercato è economicamente disfunzionale. In esso non si realizza il bilanciamento dei poteri (fiducia reciproca), a si realizza piuttosto una semidemocrazia con poteri distribuiti a oligarchie più o meno vaste numericamente e dimensionalmente.
    Gli umani tuttavia non sono stupidi; se sono riusciti a passare dalla tribù alla semi-democrazia, saranno anche in grado di passare dalla semidemocrazia ad una capacità, numericamente più ampia, di contributori al valore aggiunto, alla prosperità.
    4) su una cosa l’articolo probabilmente ha ragione: non si sa in quale punto del globo del mondo stia avvenendo questa innovazione. Proprio perchè “forza innovativa”, questa volta potrebbe accadere in molti poli geografici contemporaneamente e non più in un’unica area geografica.

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