Gerusalemme, Salah ed Din street. Sono giorni tempestosi. Anche del meteo. “Noi palestinesi abbiamo sempre pregato per la pioggia: un bene raro da queste parti”, dice un amico. “Ora, per le condizioni in cui sopravvivono i nostri fratelli di Gaza, preghiamo ci sia il sole”.
Tel Aviv, sabato scorso. La piazza del Museo d’arte è presidiata da parenti e amici degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas. Uno di loro viene dal kibbutz Megiddo nella valle di Jezreel. E’ lontano da Gaza ma due nipoti gemelli vivevano nelle comunità attaccate e ora sono prigionieri nella striscia. Parliamo di quanto siano cambiati i kibbutz e della scomparsa della sinistra israeliana. Poi il kibutznik presenta la sorella, madre dei gemelli dei quali non hanno notizie dal 7 ottobre.
Nella chiacchierata davanti al museo non si parla di cosa accade ai civili di Gaza. Non esistono. Dopo qualche giorno i parenti degli ostaggi avrebbero organizzato un presidio alla frontiera per bloccare gli aiuti umanitari. Neanche l’amico palestinese aveva mai ammesso le mostruosità compiute da Hamas nell’assalto del 7 ottobre. “Forse”, aveva detto una volta. “Ma senza non saremmo qui a parlare di stato palestinese”.
E’ la grande verità di questo conflitto: nella somma dei torti e delle ragioni accumulate da entrambi, ogni ingiustizia nasconde una ragione. O viceversa. Un saggio intitolato “Palestine 1936” (Oren Kessler) racconta la Grande rivolta araba contro l’immigrazione degli ebrei europei. Le intenzioni naziste erano chiare e la Palestina era l’unica porta semi-aperta verso la salvezza. Nel 1938 a Evian, in una vergognosa conferenza promossa dal presidente Roosevelt, europei, nord e sudamericani avevano rifiutato di accogliere gli ebrei tedeschi. Restava la Palestina abitata però dai palestinesi. “Noi Arabi, Musulmani e Cristiani, abbiamo sempre profondamente simpatizzato con gli ebrei perseguitati e le loro sventure”, scrissero i rappresentanti dei palestinesi. “Ma c’è una grande differenza fra questa simpatia e l’accettazione che una tale nazione (i sionisti, n.d.r.) governino su di noi”.
Nella salvezza di un popolo è sempre stata implicita la catastrofe dell’altro. E’ anche per questo che ebrei e arabi di Palestina continuano a non ascoltarsi. Ora gli Stati Uniti, da troppo tempo colpevolmente assenti, hanno resuscitato una vecchia formula: sicurezza per Israele e stato per i palestinesi. “So che in questo momento di tanto odio e incertezza, è difficile da immaginare”, ammette Jake Sullivan, il consigliere americano per la sicurezza nazionale. “Ma è il solo cammino che garantisce la pace”.
A chi osserva da fuori sembra la sola alternativa ai massacri di un conflitto senza fine. Probabilmente non lo è per l’amico di Gerusalemme e il kibutznik di Megiddo che hanno un parente sotto le bombe a Gaza o un figlio al fronte; che sono stati espropriati della loro casa o subito un attentato. Palestinesi e israeliani, diffidenti per principio, non credono esista un osservatore esterno: pretendono cieca adesione alla loro narrativa.
L’INSS, l’autorevole centro israeliano di studi strategici, ha calcolato il numero delle manifestazioni nel mondo, nei primi due mesi di guerra: 620 a favore d’Israele, 7.557 contro: soprattutto nei paesi del Sud Globale che avrà un ruolo crescente nella determinazione della geopolitica di questo secolo. Ma più di un migliaio di manifestazioni pro-Palestina sono avvenute negli Stati Uniti. L’antisemitismo c’è e non morirà mai ma sarebbe una fuga dalla realtà pensare che sia solo questo. Quando giudicano Israele gli europei delle generazioni più mature non possono ignorare il portato storico dell’Olocausto. La gran parte dei giovani occidentali e dei paesi del Sud globale no: non ignorano quella tragedia ma giudicano Israele per quello che vedono oggi.
Antony Blinken, il segretario di Stato Usa, ha spiegato la causa di questo mutamento: anche se l’ha iniziata, assassinando, mutilando e violentando, sembra che Hamas stia vincendo la guerra della narrativa globale sui social media, a causa delle migliaia di vittime civili a Gaza, provocate dai bombardamenti israeliani.
Qualcuno ha incominciato a cambiare lo slogan “Insieme vinceremo” con “Insieme supereremo tutto questo”. E’ un momento difficile per Israele, la vittoria su Hamas è sempre più elusiva e la pressione internazionale cresce. Escludendo uno stato palestinese, Bibi Netanyahu ha aumentato l’isolamento. Gli israeliani si sentono soli e disorientati. Una poetessa immagina di andare all’ufficio oggetti smarriti perché “ho perso le parole”.
E’ lontano il momento in cui israeliani e palestinesi capiranno la comune tragedia di Gaza. Ciascuno dei due popoli pretende l’esclusiva sul dolore. Quasi 80 anni fa gli ebrei decisero di dare all’Olocausto il nome di Shoah; i palestinesi chiamano Nabka la perdita della terra e l’esilio. Le due brevi parole si traducono allo stesso modo: catastrofe.
Ps – Sabato a Milano Liliana Segre ha smentito il mio articolo, mostrando “da nonna” pietà e comprensione anche per i bambini di Gaza. Al contrario, i giovani palestinesi hanno voluto confermarlo, manifestando nonostante si celebrasse il ricordo della Shoah. Potevano farlo benissimo il giorno dopo, come con grande umanità e senso politico sostenevano gli imam italiani. La libertà di manifestare sarebbe stata garantita. Invece no. Una volta di più hanno confermato, come gli israeliani, di non rispettare il dolore degli altri.