Abbandonato il dicastero degli Esteri, Sergej Lavrov ha assunto a tempo pieno la carica di ministro per le Teorie Cospirative. E’ parte di quello spirito dei tempi, oggi a Mosca, che preoccupa il mondo quasi più della guerra in Ucraina combattuta dai russi con grande brutalità e scarsa professionalità.
Nella conferenza stampa che ha concluso il breve vertice russo-ucraino ad Antalya, in Turchia, Lavrov aVEVA negato che la Russia abbia attaccato l’avversario: al contrario, era Kiev che metteva in pericolo la sicurezza di Mosca; aveva accusato l’Occidente di minacciare l’uso di armi nucleari: sebbene all’opinione pubblica del mondo libero risulti che sia stato Putin a farlo pubblicamente, nei suoi discorsi. E a bombardare attorno alla centrale atomica più grande d’Europa, giusto per giocare con le nostre paure.
Questo mediocre spettacolo di dezinformatsiya dovrebbe essere la pietra tombale del nuovo tentativo di portare il conflitto al tavolo negoziale. L’incontro di Antalya non ha avvicinato il primo al secondo: non gli approcci dei giorni scorsi al confine bielorusso né questo in Turchia, hanno conseguito quel primo punto necessario perché una trattativa dimostri di avere un futuro: concordare un cessate il fuoco che regga.
Ciò non di meno non è stato un esercizio inutile. Per cominciare è avvenuto a livello ministeriale. Poi le parti hanno ribadito le loro rivendicazioni che fatalmente – al primo incontro e con una guerra sempre più brutale sul campo – non potevano che essere massimaliste. Ora però russi e ucraini sanno da quale vetta negoziale l’avversario non potrà che discendere progressivamente, se cerca una via pacifica.
Nonostante i molti sbarramenti fumogeni, sembra chiaro quale sarà il cuore del negoziato quando il Cremlino avrà riconosciuto anche a se stesso che l’Ucraina non la potrà mai conquistare. Secondo gli esperti militari della Nato, per prendere e tenere l’intero territorio ucraino, la Russia dovrebbe costantemente impiegare 600mila soldati: una mobilitazione insostenibile per qualsiasi potenza militare. Nel 2003 per vincere in Cecenia i russi misero in campo 150 uomini ogni mille abitanti di quella piccola repubblica islamica del Caucaso: data la differenza di popolazione, per avere lo stesso risultato in Ucraina dovrebbero impiegare 6 milioni di soldati.
Il cuore del negoziato fra ucraini e russi – se a quello prima o poi arriveranno – è la neutralità di Kiev. In un certo senso i due nemici sono d’accordo. La grande differenza è sull’interpretazione del principio. Gli ucraini sono disposti a rinviare sine die il loro ingresso nella Nato, un po’ meno l’ambizione di entrare nell’Unione Europea. Purché la loro neutralità sia quella praticata dalla Finlandia che è entrata nella Ue solo nel 1995 ma che da 80 anni è libera e democratica come qualsiasi altro paese dell’Unione.
Per la Russia la neutralità ucraina può essere esercitata solo all’interno della sua sfera d’influenza: un paese normalizzato e guidato da un presidente-marionetta che assomigli ad Alexandr Lukashenko, a Minsk. Perché questo è l’obiettivo di Putin: un’Ucraina che non sia una nuova Finlandia ma un’altra Bielorussia.
Proprio perché questo – la normalizzazione – era l’obiettivo russo scatenando l’invasione dell’Ucraina, l’incontro di Antalya è stata un’altra prova di debolezza di Mosca. I piani prevedevano un intervento rapido e risolutivo, la caduta del regime di Kiev. Ora è evidente che questo non sia più possibile a meno di settimane di guerra dentro le città: nessun Marine americano reduce della battaglia di Falluja in Iraq, lo consiglierebbe.
L’aggressione, dicono i russi, era stata resa necessaria per “denazificare” l’Ucraina: lo ha ripetuto anche Sergej Lavrov nella sua surreale conferenza stampa. Ma ad Antalya è stato costretto a parlare con Dmytro Kuleba, il ministro degli Esteri del “governo nazista” di Kiev. Qualcosa sta cambiando.