Alla fine di marzo la Cina aveva prodotto 225 milioni di dosi di vaccino anti-Covid, metà delle quali esportate; la Russia 14 milioni, il 31% all’estero; gli Stati Uniti 164 milioni e solo il 4% date ai confinanti Canada e Messico. I vaccini della Gran Bretagna sono stati tutti impiegati per uso domestico.
Perché queste grandi differenze? In fondo l’incapacità americana di guidare la campagna globale contro la pandemia è stata forse il segno più drammatico della crisi del suo potere globale, fino a poco tempo fa irraggiungibile. Il massiccio export cinese invece è stato utile per riscrivere la narrativa sul Covid e far dimenticare a molti nel mondo che la pandemia era partita da lì.
Cosa dunque ha impedito a due grandi paesi occidentali di usare il vaccino come arma efficace del soft power? La democrazia. A Mosca devono rendere conto a pochi, a Pechino proprio a nessuno. Cosa sarebbe accaduto a Joe Biden e Boris Johnson se avessero incominciato a esportare dosi massicce di vaccino prima di rassicurare e immunizzare i loro concittadini?
Anche Narendra Modi aveva incominciato a distribuire vaccini ai paesi confinanti con l’India per affermare in quel modo che l’Asia meridionale è il suo cortile di casa. Le proteste della gente e la ricrescita dei contagi lo hanno spinto a rinviare quel proposito. Bibi Netanyahu aveva proposto di mandare dosi di vaccino ai paesi che avrebbero trasferito la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Qualche consigliere gli ha spiegato che gli israeliani non avrebbero apprezzato, soprattutto a pochi giorni dalle elezioni politiche.
Il solco profondo fra mondo liberale e illiberale c’è sempre stato, sebbene prima non fosse ritenuto così grave e profondo, e Donald Trump avesse provocato molta confusione sui valori dell’una e dell’altra parte. Ma la pandemia ha reso evidente anche al più convinto dei pacifisti quanto sia diventato pericoloso lo scontro.
Sin dall’inizio la Guerra fredda aveva creato i suoi anticorpi per evitare che la gara fra Usa e Urss – che aveva anche i suoi conflitti caldi nelle periferie del mondo – si trasformasse in tragedia universale. Come gli arsenali nucleari, anche avere o no i vaccini è una questione di vita o di morte: i primi non sono mai stati usati, i secondi si.
Le concrete minacce di Xi Jinping, le accuse esplicite di Joe Biden, Putin che ammassa truppe al confine ucraino, l’Unione Europea che ha ancora bisogno di molti anni per diventare un credibile protagonista politico (basta che finisca l’era di Angela Merkel per farci sentire insicuri), provocano ansia.
In una interessante ricerca, Jim Mcgann, direttore del Think Tanks and Civil Societies Program dell’Università di Pennsylvania, ha contato i centri di studio nel mondo: prima della pandemia erano 8.248; ora più di 11mila. Nella grandissima parte think-tank che si dedicano alle relazioni internazionali politiche ed economiche, difesa e sicurezza, tecnologie applicate a quei temi. Esiste un grande mercato perché la gente ha paura e vuole capire, intuire in questo caos multipolare quale futuro ci aspetta e quali siano le soluzioni perché non sia tragico.
Un tentativo di risposta lo offrono Richard Haass e Charles Kupchan, presidente del Council on Foreign Relations il primo, docente alla Georgetown University – la fabbrica dei diplomatici americani – il secondo. In un breve saggio pubblicato su Foreign Affairs, propongono di creare un “Nuovo Concerto delle Potenze”, una versione adeguata al XXI secolo del Concerto d’Europa del XIX.https://www.foreignaffairs.com/articles/world/2021-03-23/new-concert-powers?utm_medium=newsletters&utm_source=fatoday&utm_campaign=The%20Singular%20Chancellor&utm_content=20210421&utm_term=FA%20Today%20-%20112017
A quest’ultimo, creato dal Congresso di Vienna nel 1815, dopo la sconfitta di Napoleone, partecipavano Gran Bretagna, Russia, Francia, Austria e Prussia; nella nuova versione i protagonisti sono Usa, Cina, Russia, Unione Europea, India e Giappone: il 70% del Pil mondiale e delle spese militari. Allora c’erano due potenze sopra le altre, britannici e russi; oggi Usa e Cina. C’erano i più grandi sistemi democratici dell’epoca, Gran Bretagna e Francia, che si confrontavano con l’oscurantismo di Russia, Austria e Prussia.
Il funzionamento non fu perfetto. Ci furono le rivoluzioni del 1848, la guerra di Crimea del 1853, quella franco-prussiana del 1870. Ma nulla di paragonabile all’inferno europeo del 1914-18 causato dalla fine di quella secolare collaborazione concertata, e alla replica ancora più distruttiva del secondo conflitto mondiale.
Oggi esistono già le Nazioni Unite, ma quel palcoscenico è formale, e l’irriformabile Consiglio di sicurezza è superato: non rispecchia la realtà internazionale. Secondo Haass e Kupchan il nuovo concerto delle potenze deve essere un’associazione informale: con una sua struttura permanente di burocrati e diplomatici ma un luogo nel quale i leader più potenti si confrontino liberamente e a porte chiuse.
A seconda dei temi in discussione, la concertazione sarà allargata ad altri paesi o alle associazioni regionali: Unione Africana, Lega Araba, Asean; o ai gruppi di contatti come quello di Normandia dedicato alla crisi ucraina o il 5+1 dell’accordo sul nucleare iraniano; oppure agli organismi multilaterali come Fondo Monetario e Organizzazione Mondiale per la Sanità.
Significa chiedere alla Storia di resuscitare un cadavere diplomatico? Forse si. Ma diversamente dai tempi del vecchio concerto europeo, le grandi potenze non sono più così isolate fra loro. Il summit appena organizzato da Biden sui mutamenti climatici, riguarda un tema comune; come la lotta alla pandemia, nonostante l’uso politico che ne è stato fatto. Gli scontri sulle catene di approvvigionamento delle industrie, sul commercio, la tassazione digitale, l’intelligenza artificiale, richiedono soluzioni concertate in un numero inimmaginabile nel mondo del XIX secolo. Un’opportunità di dialogo permanete, dunque, esiste.
Http://www.ispionline.it/it/slownews_ispi/
Allego un articolo su pandemia ed economia in India pubblicato nel Global Watch di Ispi
https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/india-il-virus-sfida-una-crescita-record-30141