Bernie Sanders, candidato presidenziale della sinistra democratica, sostiene che “i miliardari non dovrebbero esistere”. Sorpreso, indignato, deluso per la mancanza di riconoscenza del genere umano, Mark Zuckerberg (una ricchezza personale da 70 miliardi di dollari), non gliele ha mandate a dire. In un’intervista a Fox News ha spiegato che i miliardari “sono persone che fanno cose davvero buone e aiutano tanto altre persone”.
Ecco due begli esempi di populismo e demagogia. Ma il danno che Sanders può fare, è aiutare Donald Trump a essere rieletto l’anno prossimo. L’inventore di Facebook è molto più pericoloso. Non solo perché è già stato sorpreso con le mani nella marmellata mentre vendeva per soldi i nostri dati personali che in buona fede gli avevamo affidato. E’ pericoloso perché col suo volto antipatico e arrogante è il simbolo dell’accumulazione della ricchezza, della crescente ingiustizia sociale che sta minando dall’interno i sistemi liberal-democratici e l’economia di mercato.
Gli esperti cercano di spiegare e mettere insieme ciò che sta accadendo in Cile, Bolivia, Libano, Iraq, Russia, Spagna, Kazakistan, Hong Kong e in molti altri luoghi; quel che è appena accaduto in Ecuador, Algeria, Sudan. Ogni protesta di piazza ha le sue specificità. A Hong Kong l’economia non c’entra, a Barcellona molto poco; a Mosca la gente protesta contro il sistema putiniano degli oligarchi e l’assenza di democrazia. Negli altri, dove questione sociale e corruzione del sistema sono la motivazione comune, c’è tuttavia un uguale filo rosso, nonostante le diversità religiose e geopolitiche non paragonabili fra di loro.
Ciò che unisce la gran parte delle agitazioni socio-economiche è il sempre più pesante squilibrio nella distribuzione della ricchezza. Quasi ovunque nel mondo, un numero sempre più piccolo di persone diventa sempre più ricco, a spese della maggioranza sempre più povera. Nel corso degli anni l’avidità dei primi ha eroso anche la crescita della classe media, pilastro di stabilità di ogni sistema.
Ho preso come simbolo Mark Zuckerberg, che un paio di settimane fa è andato all’università di Georgetown, alle porte di Washington, a tenere un’imbarazzante lezione sulla libertà di opinione. Ma il più democratico Jeff Bezos (patrimonio da 110 miliardi) è poco da meno. La sensibilità liberal di Bezos finisce con la lettura mattutina del Washington Post, un faro di libertà che lui possiede. Poi, quando si dedica al suo core business, torna a essere un Trangugia&Divora. La gran parte dell’1% che possiede la maggiore percentuale della ricchezza americana, è concentrato nella Silicon Valley. Un tempo molti di noi si erano illusi che gli imprenditori dell’Hi-Tech sarebbero stati diversi, più liberal, socialmente sensibili. Invece assomigliano tristemente ai padroni delle ferriere della Rivoluzione Industriale della metà del XIX secolo.
Certo, questi uomini e donne sono dei geni, hanno creato cose fantastiche. Ma l’economista italo-americana Mariana Mazzuccato ricorda che Internet fu sviluppato dal Pentagono durante la Guerra Fredda; che l’iPhone è un insieme di tecnologie create da diverse agenzie statali (“Lo Stato Innovatore”, Laterza 2014). Tutto questo è costato denaro pubblico. Ma anziché dimostrare riconoscenza, i miliardari de web e non solo quelli, non si fidano dello stato: non vogliono che sia lui a stabilire per quali programmi sociali, ospedali, scuole debbano essere usate le loro tasse. Ci pensano loro, con atti filantropici, evidentemente deducibili dalle tasse. Quindi non solo pagano in percentuale meno tasse delle loro segretarie, ma risparmiano anche quando fanno del bene.
Il cavallo di battaglia di Zuckerberg nell’intervista a Fox, condiviso da tutti i miliardari non solo americani, è: non tassateci. Il nostro spirito imprenditoriale ci rende creditori della società e la filantropia sostituisce i nostri obblighi fiscali. L’idea che la ricchezza risparmiata dalle tasse sia investita per aprire imprese e dare lavoro, non è una regola provata ma un’ipotesi. Ci sono imprenditori che lo fanno, molti che investono a Wall Street.
Abhijit Banerjee, l’economista indiano che ha appena conquistato il Nobel per i suoi studi sulla povertà, ricorda che per la fascia di reddito più alta “gli Stati Uniti all’epoca di Dwight Eisenhower avevano un’aliquota fiscale del 95%. Richard Nixon l’aveva del 70. E non stiamo parlando di due comunisti”. Queste aliquote non hanno impedito all’America di diventare la prima potenza economica del mondo.
Poi ci sono i politici. I manifestanti di Santiago, Beirut e della gran parte delle piazze in fermento, se la prendono soprattutto con loro. Hanno ragione: sono spesso corrotti e non fanno le riforme necessarie per ridurre la distribuzione malata della ricchezza nazionale. Nel mondo occidentale che ci riguarda di più, c’è un’evidente crisi di leadership politica. Tolta Angela Merkel, ormai al declino, è difficile trovare leader capaci di avere una visione che guardi oltre le prossime elezioni. Il consenso événementieldei click sul tweet di giornata vale più di ogni cosa. E qui torniamo di nuovo alle responsabilità delle nuove tecnologie prodotte dai grandi evasori legalizzati che citavo più sopra.
Non voglio fare l’anti-modernista. Sono un analfabeta di ritorno, irrimediabilmente un uomo del XX secolo ma non sento la mancanza del telex col quale un tempo faticosamente mandavo i miei articoli al giornale: faccio anch’io uso smodato del computer, più cauto dello smartphone e molto più parsimonioso dei social. Ma le grandi questioni che le nostre classi politiche devono affrontare, sono generazionali. Entro le prossime elezioni regionali o politiche non c’è formula che possa risolvere il problema dei migranti. E’ difficile trovare le politiche per risolvere le questioni strategiche dell’occupazione giovanile e della povertà, quando la gran parte della disoccupazione è causata dalla robotizzazione delle catene produttive, dal web e da tutte le nuove tecnologie.
Se oggi un governo ha la forza d’imporre una riforma radicale del sistema scolastico, i risultati si vedranno alla prossima generazione. Intanto gli studenti protestano, il sindacato si oppone, gli imprenditori nicchiano, i giornali si fissano sul dettaglio (il tweet di giornata del politico), non sul quadro generale. E la gente scende in piazza.
http://www.ispionline.it/it/slownews-ispi/
Allego un commento sulle manifestazioni libanesi, pubblicato sul sito del Sole 24 Ore.