Berlino 30 anni – Mangiare ananas da quella parte del Muro

lucasPerché scappano da qui? Fu la prima domanda. Anzi: fu più un’obiezione critica che una domanda. Giusto il tempo di arrivare a Berlino Est con un aereo dell’Interflug; attraversare il controllo passaporti dopo che i Vopos avevano detto Danke schon restituendo il documento; trovare il taxi in una fila ordinata davanti al lindo aeroporto di Schonenfeld; entrare in città, anch’essa efficiente in quell’inizio d’autunno tiepido e promettente del 1989. C’erano molti fiori e molti giovani. Perché, dunque, i tedeschi dell’Est stavano fuggendo dalla DDR?

 

Ad agosto, il 23, lo stesso giorno in cui lettoni, estoni e lituani avevano creato una catena umana di centinaia di chilometri per chiedere l’indipendenza dall’Unione Sovietica, l’Ungheria aveva incominciato a svitare, tagliare e scardinare la sua parte di Cortina di Ferro. Chi voleva, poteva andare in Austria ed entrare nel mondo del nemico senza più chiedere alla polizia politica lo speciale passaporto per l’espatrio: diverso da quello necessario per viaggiare all’interno del proprio paese – ma non in ogni regione del paese – rilasciato dalla stessa polizia.

 

Tutti i paesi de blocco comunista erano organizzati allo stesso modo: se non in delegazione ufficiale, viaggiare non era un’attività incoraggiata dalle autorità. Il Muro di Berlino era solo l’ultimo divisorio fisico, il più famoso perché visibile, la barriera finale di un sistema di muri burocratici, polizieschi, ideologici, di vita quotidiana. L’obiettivo delle “democrazie popolari e internazionaliste” alla fine era di fare degli uomini e delle donne stanziali. Meglio, immobili. Se si fossero mossi e avessero aggirato i muri eretti attorno a loro, avrebbero scoperto che altrove c’era di meglio.

Ma gli ungheresi, che di quel blocco erano sempre stati i meno entusiasti, avevano aperto una porta. Prima timidamente, poi in massa, con le loro Trabant cariche, i tedeschi dell’Est scendevano in Cecoslovacchia, attraversavano l’Ungheria, entravano in Austria e risalivano in Germania Federale a chiedere asilo politico. Il Muro di Berlino che avevano guardato da Est, meno di una settimana dopo lo potevano vedere da Ovest. E dicevano tutti di essere più felici.

Era questo che non capivo. Anche i berlinesi orientali dai quali cercavo una spiegazione appena arrivato, non capivano perché facesse tanta fatica a capire. Probabilmente sospettavano che fossi comunista. Loro non lo erano e chi possedeva ancora la tessera del Partito, aveva smesso di crederci da molto tempo. Lo tenevano per fare la coda in negozi che avevano ancora qualcosa da vendere; per essere fra i primi della lista ad ottenere il diritto di comprare automobili contingentate e mal funzionanti già quando uscivano dalla catena di montaggio; per mandare i figli in tristi campeggi estivi  dove almeno i bambini vedevano il mare una volta l’anno.

 

In ogni caso nemmeno io ero comunista, non lo ero mai stato. Semplicemente abitavo a Mosca da più di due anni. Se vivevi nella capitale del mondo a Est del Muro, ogni cosa veniva valutata con l’unità di misura di un moscovita e del paese guida, l’Unione Sovietica. Varsavia e Berlino Est erano due metropoli rese lugubri dai loro regimi. Ma se ci arrivavi da Mosca, la prima sembrava Parigi e la seconda Monaco di Baviera. Occorreva proseguire il viaggio fino alla Parigi e alla Monaco reali per capire come stavano effettivamente le cose.

Nel 1989 – ma forse era sempre stato così – quello comunista era l’unico impero della storia nel quale vivere al centro di un potere così sconfinato fosse più duro e ostile che vivere in una delle sue periferie. L’imminenza d una crisi che nessuno percepiva, pur vivendoci in mezzo, aveva fatto di Mosca una città stracciona. Con quel senso di tragica grandiosità russa, naturalmente: ma sempre stracciona e cinica.

Per questo a me che oramai ero moscovita, volare con Interflug dava piacere: prima avevo viaggiato con Aeroflot sui cui aerei sembrava sempre che il personale di bordo facesse di malavoglia un favore ai passeggeri, accettando d’imbarcarsi con loro. Per chi partiva come me da Sheremetyevo, l’aeroporto di Mosca buio e puzzolente, una specie di anticamera della Lubianka, arrivare a Schonenfeld aveva del miracoloso. A Mosca i miliziani del KFG osservavano tutti gli stranieri in arrivo e in partenza con lo sguardo di chi stava per scoprire una spia occidentale: erano la conseguenza di un sistema legale nel quale l’imputato non era innocente ma colpevole fino a prova contraria. A Berlino Est i Vopos, diminutivo di Volkspolizei, la polizia del popolo, mi avevano invece restituito il passaporto dicendo grazie mille.. Credo mi avessero anche sorriso: ma non potrei giurarci, forse sono ancora suggestionato dall’inaspettato raffronto di allora fra Berlino e Mosca.

Per questo mi ero domandato perché i tedeschi lasciassero la DDR e i russi non facessero la stessa cosa dall’URSS. Mi bastò, un paio di sere più tardi, attraversare il Check-point Charlie, l’unico passaggio per gli stranieri fra il quartiere di Mitte a Est e quello di Kreutzberg nella parte occidentale. Fu sufficiente camminare a Ovest lungo il Kurfustendamm per capire che anche Berlino Est faceva parte del mondo che stava perdendo la Guerra Fredda. Era solo un po’ meglio di Mosca dove la carta igienica, il latte, i pannolini per i figli e il detersivo li dovevamo ordinare con largo anticipo per telex a Helsinki. Nella DDR erano scadenti ma almeno li trovavi.

A osca gli spacci di alimentari, chiamati appropriatamente “Dieta”, erano vuoti. La gente usciva di sempre di casa con una sporta perché nell’inesistente sistema distributivo sovietico poteva accadere che, senza preavviso, Mosca si riempisse di mele o di pere, oppure di patate. Sapendo che avrebbero potuto sparire per altri sei mesi, i moscoviti ne compravano quanto più potevano.

Una volta arrivarono solo ananas. Ananas per giorni e giorni. Pile di ananas sotto la neve che cadeva incessante sulla città. Forse un pagamento cubano in natura per il petrolio che l’impero sovietico distribuiva a piene mani ai vassalli, usando un rudimentale sistema del baratto: un chilo di zucchero di canna uguale a un barile di petrolio siberiano.

Non era per tenere lontana la gente dalle vetrine di Kurfurstendamm che erano stati costruiti prima la Cortina di Ferro “da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico”, come disse Winston Churchill nel 1946, e poi il Muro di Berlino nel 1961. Erano in gioco idee e libertà più elevate. Eppure, anche le vetrine di Kurfurstendamm contavano. Nel 1987, quando tornai a Milano a passare il primo Natale dopo un anno di Unione Sovietica, mi avevano infastidito le luminarie e l’opulenza delle vetrine del centro.  Nell’autunno dell’89, passeggiando per Berlino Ovest, ero rimasto quasi scandalizzato da quanti sexy shop ci fossero. L’esperienza di vita socialista mi aveva inconsapevolmente instillato una forma di rigore morale. Non c’era invece niente di più falso. Quei principi socialisti non erano che un Villaggio Potemkin della morale: dietro la facciata degli slogan c’era il vuoto. Il socialismo dell’Est era corrotto e malato, per sopravvivere era aggrappato al suo Muro.

Appena fosse caduto e la gente avesse avut la libertà di riversarsi a Ovest, i berlinesi dell’Est avrebbero fatto due cose, rima di tutto: sarebbero saliti all’ultimo piano nella sezione alimentare del KaDeWe, il grande magazzino sul Kurfurstendamm, a scoprire quante qualità di wurstel sapeva fare la Germania capitalista; e sarebbero entrati nei negozi a luci rosse. Poi soddisfatto l’appetito alimentare e quello della carne, avrebbero fatto ritorno a casa, ad abbattere il regime della DDR, ad aprire giornali liberi e iniziare il processo di riunificazione tedesca. Il Muro li aveva tenuti volutamente lontani per troppi anni dai piaceri personali e dagli ideali collettivi. Due esigenze, due categorie di fame diverse ma di pari importanza.

E’ quello che Mikhail Gorbaciov non capì o, se capì, non fece in tempo ad aggiustare: dal centro, la  parte più sconnessa e denutrita dell’impero, tentò di offrire principi a gente affamata di cibo.

Il mio ultimo viaggio a Berlino Est, il 6 e 7 ottobre del 1989, lo avevo fatto al suo seguito. Dopo essere stato in altre parti dell’impero con risultati alterni, Gorbaciov era venuto anche nella DDR diffondere il verbo della Perestroika e della glasnost. “La vita avrebbe punito i ritardatari”, aveva detto a Erich Honecker, il segretario del partito tedesco che non aveva alcuna intenzione di seguire l’esempio del russo. Al contrario, si aspettava che di fronte al moltiplicarsi delle manifestazioni contro il regime comunista tedesco , l’URSS avrebbe reagito alla vecchia maniera: mandando i carri armati come a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968.Honecker non aveva capito che anche il ondo comunista stava cambiando. All’inizio dl quell’89 il Pc polacco aveva legalizzato Solidarnosc; a primavera era cambiato il regime in Ungheria e presto sarebbe accaduto anche a Praga dove Vaclav Havel si apprestava a diventare presidente della Cecoslovacchia. Alla fine di quell’anno, il 5 dicembre, in Romania i militari preposti alla difesa del sistema socialista avrebbero arrestato e giustiziato Nicolae ed Elena Ceausescu.

Dieci giorni dopo la visita di Gorbaciov, il 18 ottobre, Honecker fu invitato dal PC tedesco a dare le dimissioni “per ragioni di salute”. I suoi successori non poterono che costatare la realtà e, l’8 novembre, annunciare che i tedeschi dell’Est erano liberi di andare a Ovest quando volevano. Il giorno dopo il Muro venne preso a picconate: perché i passaggi esistenti non erano abbastanza larghi per far passare la massa umana intenzionata ad andare dall’altra parte ad ogni costo; e perché quel simbolo doveva comunque essere abbattuto una volta per tutte. Assistevamo a una rivoluzione. Ma non era esattamente quella che per decenni era stata promessa all’umanità. Era il suo contrario.

Se avesse voluto essere ancora rispettoso dell’ortodossia, prima che nei paesi satelliti il PCUS avrebbe dovuto mandare i carri armati nelle sue stesse città, in Unione Sovietica. A primavera c’erano state le prime elezioni semi-libere, il Soviet Supremo era stato sostituito dal Congresso dei Deputati del Popolo, qualcosa di molto vicino a un vero Parlamento. E anche se avesse voluto intervenire, l’Armata Rossa era troppo stanca e demotivata per farlo: dopo dieci anni di sanguinosa occupazione, a febbraio aveva concluso il ritiro dall’Afghanistan. Era stato l’inizio della fine del potere militare sovietico.

Più che aiutare Hoenecker a puntellare il Muro, Gorbaciov era venuto a Berlino coltivando l’idea che un pai di anni prima gli aveva proposto Ronald Reagan: “Mister Gorbaciov, butti giù quel Muro”. Si rendeva conto che il suo progetto di riforma del socialismo, la sua speranza di libertà graduale e guidata del mondo comunista non potevano essere credibili fino a che esisteva quel Muro: un simbolo di divisione, una grigia protezione dietro la quale si ripara e si nasconde sempre un’idea finita male o sbagliata dall’inizio.

Alla fine il Muro cadde ma il tentativo di Gorbaciov fallì perché il comunismo di stampo sovietico non era riformabile. Lui pensava che abbattere quella barriera avrebbe dato slancio morale alla sua grande riforma. Al contrario, il Muro proteggeva la grande truffa. Caduto quello, il re sarebbe stato irrimediabilmente nudo e inutile. Il comunismo non sarebbe stato rifondato da nessuna parte in Europa. Non avrebbe retto nemmeno quello più democratico del Pci né l’Eurocomunismo occidentale. In Cina e nel Sud Est asiatico era un’altra storia. E Cuba era un’isola: avrebbe vissuto più lentamente e più languidamente l’eclissi fisica di Fidel e la trasformazione del suo regime. Ma nessuno di questi comunismi avrebbe più avuto la pretesa di essere un faro per l’umanità.

Eppure il Muro allora, prima di cadere, faceva paura. Incuteva rispetto, riusciva a proteggere l’inganno che nascondeva. Prima di scoprire che è un bluff, perché la mobilità degli uomini e delle loro idee non si possono rinchiudere per sempre dentro una gabbia, ogni muro adempie egregiamente alla sua funzione. A volte per molto tempo.

Nel 1989vivevo a Mosca come corrispondente per Il Giornale di Indro Montanelli. Ero dalla parte sbagliata ma più interessante del Muro. Vedevo nella mia stessa vita quotidiana il fallimento e nonostante tutto non osavo credere che l’avrei visto cadere. A Berlino Est avevo assistito al bacio della morte di Gorbaciov a Hoenecker. Qualche mese prima, a maggio, avevo seguito il segretario del PCUS a Pechino. Era dal 1960 che un leader sovietico non metteva piede in Cina: si chiudeva finalmente la lunga guerra Fredda comunista fra due giganti che sui fiumi Amur e Ussuri avevano anche combattuto una guerra calda, breve ma sanguinosa. Credevamo che l’importanza storica della visita di Gorbaciov a Pechino fosse quella, illudendoci che i riti del mondo comunista fossero ancora rilevanti: lo stalinismo, il maoismo, il gorbaciovismo, la terza e quarta internazionale, l’internazionalismo socialista e quello nazionale. Invece arrivammo a Pechino negli stessi giorni in cui migliaia e poi centinaia di migliaia e infine milioni di studenti andavano verso piazza Tienanmen. E quella fu la notizia. I giovani invocavano il nome di Gorbaciov come fosse stato un liberatore.

Era accaduto in molti altri luoghi. Lo avevamo visto accolto da folle entusiaste a New York, a Parigi, Bonn, Roma, Berlino Est, Praga. Ovunque tranne che a Mosca o in qualsiasi altra parte dell’Unione Sovietica andasse in visita: gli apparati del partitolo temevano, la gente non si fidava. Ogni libertà che i russi ricevevano da lui, veniva usata contro di lui; ogni autonomia che concedeva dal centro, un tempo monolitico, era tradita d ucraini, baltici, moldavi e armeni per picconare l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Era come se ogni concessione di libertà non stimolasse i russi ma li disorientasse. Il fallimento di quello a cui avevano creduto non li spingeva a creare il nuovo ma li paralizzava. A Mosca non c’era niente. O forse tutto: bastava pagare. Nei menù dei sei o sette ristoranti statali (quelli privati, i “cooperativi”, erano due nel 1989, a Pechino 500), il caviale c’era sempre. E ogni volta il cameriere diceva che non ce n’era più: “finito da mesi”. Dopo un po’ lo stesso cameriere tornava sussurrando che in cambio di dollari ci sarebbe stata la possibilità di avere del caviale da portare a casa. Lo scambio fra il denaro e qualche scatoletta incartata in una pagina della “Pravda”, avveniva velocemente sotto il tavolo. Ma non occorreva farlo di nascosto: di quel commercio illegale erano complici tutti i dipendenti del ristorante. Con dollari extra si poteva avere più rapidamente l’accredito da corrispondente estero, i posti migliori al Bolshoi, la connivenza del vigile della strada, la fedeltà del personale che lavorava con te, l’amicizia del funzionario, l’intervista tanto attesa. In quei giorni, con pochi dollari si poteva comprare tutto a Mosca. Ma non si trattava di avidità, era fame vera. Per gli individui il sistema non aveva mai funzionato molto: ora si era fermato.

Ma noi che venivamo da questa parte disperata del Muro non ci credevamo. Non pensavamo che potesse cadere né che nel crollo sarebbe stato seguito dal Comecon, dal Patto di Varsavia, da tutto ciò che costituiva il sistema socialista; da un’ideologi e alla fine anche dall’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Sbagliava anche chi sosteneva che la Perestroika, iniziatrice di tutto questo cataclisma, prima o poi sarebbe fallita: proprio perché era irriformabile, dicevano, il vecchio comunismo ortodosso sarebbe tornato al potere. Invece no: in quanto irriformabile, sarebbe semplicemente finito. Ci sarebbe stato altro, ma il passato non sarebbe più tornato.

Tornai a Berlino 17 anni dopo, con i miei figli ormai più che adolescenti. Era primavera e la città era diventata bellissima. Berlino è sempre stata interessante ma ora era anche felice, a Ovest come a Est: se non nella memoria, non c’erano più segni di dove finisse l’uno e incominciasse l’altro. E da qualsiasi angolo del mondo vi si arrivasse, da Mosca o da New York, la città era davvero il luogo straordinario della uova Europa.

I miei figli non capivano perché continuassi a a passare sotto la Porta di Brandeburgo, avanti e indietro cento volte; perché chiedessi loro di fotografarmi da ogni prospettiva di quel monumento; né perché stessi per piangere visitando, lì vicino, il piccolo museo dedicato a John Kennedy. Non farmi capire a Berlino forse era il mio destino. Ma come facevo a spiegarmi io, figlio del dopoguerra, della Guerra Fredda, degli arsenali nucleari e dell’ “equilibrio del terrore”? Raccontavo molto di quello che avevo vissuto, di quante volte la mia generazione fosse stata vicina a una grande guerra fra Usa e Urss, fra capitalismo e comunismo, fra libertà e una dittatura che aveva divisioni corazzate, produceva migliaia di tonnellate di acciaio e sosteneva di avere la chiave della felicità, illudendo miliardi di persone. E’ per questo che non ho mai creduto alle bugie sull’ “islamo-fascismo” di George Bush né che al-Qaeda fosse una minaccia uguale al nazismo della generazione dei iei padri e allo stalinismo della mia.

Ma per quanto parlassi, on potevo spiegare ai miei figli cosa avesse rappresentato per me il Muro di Berlino. Per Davide e Francesco, i miei figli, muro era quello costruito dagli israeliani nei Territori palestinesi: lo avevano visto co i loro occhi sul Monte degli Ulivi, a Betlemme e attorno a Ramallah. E’ quasi ovunque più alto di quello di Berlino, ma lo si scrive senza la maiuscola che si riconosceva a quello tedesco. Con lettera minuscola come tutte le altre barriere sorte in questi anni: il muro che divide il ondo ricco da quello che ha fame; il muro dell’egoismo e del nuovo razzismo contro migranti e diversi; quello dell’ignoranza e della violenza dell’estremismo islamico; quello delle nostre paure e delle minacce reali; dell’egoismo e della disperazione. Barriere elettroniche e fossati nei deserti, telecamere nelle città, satelliti spia nello spazio.

Nel 1989, quando la guardavo da lontano, semi buia in fondo alla Unter den Linden, la Porta di Brandeburgo circondata da pattuglie armate, cavalli di Frisia e dal uro, sembrava gigantesca. Era come pensavo dovesse essere l’entrata e l’uscita fra due mondi diversi. Guardata e toccata finalmente da vicino un ventennio dopo, la Porta si era rivelata per quello che è: niente affatto minacciosa. E questo per me era la dimostrazione della relatività dei muri: anche quelli scritti con la maiuscola, sono indistruttibili fino a che lo vogliamo noi.

 

 

Questo testo scritto nel 2009 è stato pubblicato da Alinari 24Ore, nel catalogo ”Berlino: La libertà oltre il Muro” della bellissima mostra fotografica di Uliano Lucas. Fu lui, Uliano, a chiedermi di scriverlo e da dieci anni gli sono ricooscente.

 

 

Allego l’articolo “Il Kashmir secondo Modi” uscito sul sito dell’ISPI

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/india-il-kashmir-secondo-modi-24248

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