E’ tempo di contenersi, di ridurre la presenza militare e gli interessi globali, assecondando quella che sembra la tendenza multipolare del XXI secolo; oppure questo sarà ancora il secolo americano, dell’unica grande potenza capace di agire ovunque, non fosse che per mancanza di alternative? Cioè: la non ben definibile politica estera di Barack Obama è il segno dei tempi o solo di una presidenza senza una vera agenda internazionale?
Con la vittoria nella Guerra Fredda 25 anni fa (la caduta del Muro), gli Stati Uniti avevano inaugurato una stagione di potere assoluto, senza sapere esattamente cosa fare di questa forza. Solo col tempo, in corso d’opera, gli specialisti l’avevano chiamata “egemonia liberale”: la diffusione nel mondo della democrazia occidentale e del libero mercato sempre più globale. Era un’occasione storica: gli imperi durano per un periodo limitato ma è per come esercitano il loro potere in quel periodo che saranno ricordati: se distruttivi o utili allo sviluppo della civiltà.
Fu soprattutto dopo l’11 Settembre, nei due mandati presidenziali di George Bush, che la pratica operata nei due precedenti di Bill Clinton fu trasformata in una “Grand Strategy”. Pressato dalla crisi economica interna e anche per una scelta meditata, Barack Obama ha sostanzialmente rinunciato a esercitare lo stesso potere globale. O meglio, nel 2016 i suoi otto anni presidenziali saranno probabilmente ricordati per avere smantellato quella “Grand Strategy” piuttosto che per avere creato una nuova dottrina.
Non proprio un ritiro dal mondo ma un arretramento strategico. O “Restraint”, moderazione, contenere se stessi, come suggerisce il titolo dell’ultimo saggio di Barry Posen, esperto di sicurezza al MIT di Boston (“A New Foundation for U.S. Grand Strategy”, Cornell University Press). Il liberal Posen è uno dei principali teorici ascoltati dall’amministrazione Obama. Secondo lui gli Usa hanno accresciuto il loro peso internazionale, “incapaci di moderare le proprie ambizioni”; la “Liberal Egemony” è “non necessaria, controproducente, costosa e rovinosa”. Tre eventi hanno spinto Posen a pensarla così: l’allargamento della Nato a Est che “ha dilatato gli obblighi americani servendo poco alla sua sicurezza e provocando inutilmente la Russia”; il Kosovo, una “guerra facoltativa” condotta sulla base di scarse informazioni; l’Iraq, “una guerra che ha ripetuto gli errori del Kosovo ma su una scala più larga e con costi molto più alti”.
E’ venuto dunque il tempo, conclude Posen, nel quale “gli Stati Uniti, come altri Paesi, devono vivere nel mondo per come è: un mondo senza una singola autorità che ne garantisca la protezione”. Il Paese deve concentrarsi su un piccolo numero di minacce – investendo sulla flotta, riducendo numeri e costi dell’esercito – affrontandole con ingegno e moderazione. “Non è intelligente sprecare energie nel trasformare un mondo recalcitrante, che potremmo usare rinnovando un’America che ha ancora bisogno di qualche aggiustamento”.
“Restraint” è stato presentato venerdì qui a Washington alla Brookings Institution, in un interessantissimo dibattito che ha messo di fronte l’autore e il suo contrario ideale: Robert Kagan, politologo prolifico e geniale, dalle idee molto più conservatrici. Kagan non appartiene alla schiera dei neo-con con i quali aveva pur lavorato ai tempi dell’amministrazione Bush: è piuttosto un internazionalista interventista. E’ ovvio che per Kagan l’America sia più necessaria che mai: soprattutto ora che l’Europa con l’Ucraina e l’Asia con le tensioni fra Cina e Giappone, sono diventati “arene di possibili guerre”.
Il bilancio di 25 anni di “Liberal Hegemony”, iniziata secondo Kagan già durante la Guerra fredda, non è così negativo come posto da Posen. “Un conflitto mondiale oggi è impossibile; è stato un periodo di prosperità senza precedenti nella Storia: la crescita media del Pil globale è superiore al 4% l’anno e quattro miliardi di persone sono uscite dalla povertà; una condizione straordinaria di libero scambio della quale hanno goduto anche cinesi e russi; oggi nel mondo più di cento Paesi sono democratici. Tutto questo grazie all’ordine mondiale che l’America ha creato e garantito”.
Chi ha ragione, dunque? Barry Posen, per il quale i costi militari americani possono scendere dal 4 al 2,5% del bilancio nazionale; o Robert Kagan secondo cui “la politica estera è sempre stata costosa: mi chiedo se non sia meno caro mantenere quella che abbiamo piuttosto che ricostruirne una nuova”?