A fine novembre si vota. Forse. In tre fasi fino a gennaio per il primo Parlamento democratico. Poi la Costituzione e infine, verso marzo, elezioni presidenziali. Entro il 2012 i militari – annunciano i militari – lasceranno il governo dell’Egitto e come Cincinnato, rientreranno nelle caserme.
Sembra la favola della Primavera araba: e alla fine vissero tutti felici e contenti. Poi c’è la realtà di queste ore: la battaglia nel centro del Cairo fra copti, mestatori e militari. Poi i movimenti giovanili e i loro bloggers che avviarono la protesta di piazza Tahrir e ora annunciano un boicottaggio elettorale. Continuano a sostenere che le regole, cioè la Costituzione, vadano fatte prima della chiamata alle urne. Intanto, anche prima della nuova esplosione settaria, il Paese era paralizzato dagli scioperi.
Facile essere pessimisti in queste ore. Ma sfidando quello che appare evidente, e forse la stessa logica, voglio affrontare alcuni stereotipi sull’Egitto di oggi.
La Primavera è già finita. Quel che non vediamo e non raccontiamo è ciò che invece accade fuori dal Cairo, nel resto del Paese. Come nelle università e negli uffici pubblici della capitale, dove studenti e docenti, impiegati e dirigenti eleggono i loro capi e i loro rappresentanti, anche fuori la democrazia si sta lentamente imponendo. Nei villaggi del Delta e dell’Alto Nilo la gente elegge il suo sindaco, nelle grandi conglomerate industriali gli operai dicono quel che pensano. Gli egiziani scelgono i loro rappresentanti e l’antica paura del potere si trasforma in fiducia.
Vinceranno i Fratelli musulmani. La convinzione è affiancata da un’altra: che la Fratellanza sia un monolite radicale. Come il fonte laico-liberale, i militari, il governo e ogni cosa oggi in Egitto, anche gli islamici sono divisi fra loro. Si contano almeno cinque correnti politiche: dai salafiti fiancheggiatori di al Qaeda al Partito centrista (una specie di Dc), ai giovani bloggers “post-islamici”. I giovani hanno smesso di ascoltare i vecchi leaders fondamentalisti. Lo stesso sta accadendo anche fra i cristiani.
Manca un vero leader. Vero, ma è proprio questa la grande novità. Da troppi anni l’Egitto è governato da faraoni e generali. E’ una fase di transizione, questa, e come tutte le stagioni di passaggio è contemporaneamente pericolosa e fertile. Il Paese sta imparando a vagliare, giudicare, scegliere.
Questo non vuole essere un elogio alla Primavera egiziana. Ognuno dei tre stereotipi ha un fondo di verità. La libertà di scegliere i rappresentanti potrebbe diventare anarchia senza una sintesi finale; le diversità nell’arcipelago islamico, potrebbero essere spazzate da una repubblica islamica; l’assenza di un leader potrebbe favorire l’affermarsi di questa soluzione religiosa o di un altro re taumaturgo in divisa militare. Oggi in Egitto è un corso un processo degenerativo in concorrenza con uno creativo. Nessuno sa quale dei due raggiungerà per primo il suo traguardo. Nemmeno io sono così convinto che la democrazia vincerà. Smontando i tre stereotipi voglio solo sottolineare che la realtà è più complessa di un episodio come quello di domenica al Cairo, per quanto gravissimo e pericoloso. Sto esercitandomi ad essere ottimista almeno tre giorni su sette.