Ci voleva l’emiro al-Thani del Qatar per far uscire i palestinesi dall’oblio nel quale gli eventi delle Primavere arabe, gli israeliani e i loro stessi errori li avevano spinti. Si può dire ciò che si vuole del minuscolo ma ricchissimo emirato del Golfo: non che sia privo di immaginazione e determinazione. Accanto alla pachidermica Arabia Saudita sembra un razzo.
Dunque, convocati a Doha, Abu Mazen e Khaled Meshal hanno firmato un documento che è l’evoluzione di un precedente documento firmato e disatteso il quale era il frutto di un altro negoziato condotto e tradito. Uno Stato palestinese non esiste ma per uno di quegli inspiegabili accadimenti che di tanto in tanto si verificano in Terra Santa, ci sono due Palestine, divise e in conflitto come le due Coree: quella dell’Est, la Cisgiordania, a guida Fatah, cioè Olp, con presidente Abi Mazen e premier Salam Fayyad.; e quella dell’Ovest, Gaza, governata da Hamas. Laggiù c’è un governo locale con un primo ministro, Ismail Haniyeh, e una milizia armata molto autonoma dal potere del suo governo. Ma all’estero c’è un capo politico Khaled Meshal.
Sostituendosi agli egiziani che al momento hanno altri seri problemi, l’emiro al-Thani ha chiamato a Doha Abu Mazen e Meshal. Mostrando loro la realtà delle cose, spesso diversa dalla realtà della quale sono convinti i palestinesi – e forse tirando anche fuori i soldi necessari – l’emiro li ha convinti a riprendere un accordo che avevano già firmato nell’aprile dell’anno scorso: governo di unità nazionale ed elezioni. Per evitare il no di Israele e Stati Uniti, e per rendere le cose credibili, il governo sarà tecnico con il solo compito di organizzare elezioni presidenziali e parlamentari da tenersi a giugno. Premier e garante sarà Abu Mazen.
Abu Mazen sarebbe già noto al mondo come presidente dell’Autorità palestinese, carica che esercita. Ma non è un problema: oltre ad essere due, nessuna delle quali Stato, le Palestine hanno anche cariche istituzionali tutte scadute: la presidenza di Abu Mazen a Ramallah, la premiership di Haniyeh a Gaza. L’altro primo ministro Fayyad della Palestina dell’Est no. Ma il parlamento che lo ha votato era scaduto.
Noi solo noi ma molti arabi autorevoli si sono spesso chiesti perché i palestinesi siano l’unico movimento di liberazione che ha passato più tempo a combattere le sue guerre civili che l’occupante della sua terra. Certamente gli arabi che fanno questa obiezione hanno le loro serie responsabilità. Ancora più importanti sono quelle israeliane. Ma se 64 anni dopo la Nakhba i palestinesi sono ancora divisi, devono affidarsi all’ennesimo salvatore arabo e sono sempre più occupati dagli israeliani, sarebbe per loro saggio distendersi sul lettino di un analista della Storia.
Qualsiasi cosa faranno i palestinesi, comunque non andrà bene a questo governo israeliano. Ma il duplice passaggio elettorale è necessario e non solo perché le cariche sono scadute: i palestinesi devono chiarire prima di tutti a se stessi, poi a Israele e infine al resto del mondo, se vogliono essere perenne movimento di lotta come si offre Hamas; o partito di realismo, di compromesso e di governo come effettivamente è la Palestina di Abu Mazen e Salam Fayyad. Se Khaled Meshal ha lasciato l’imbarazzante protezione siriana e ora cerca casa fa Amman e il Cairo, le Primavere arabe devono avere un senso anche per il popolo palestinese e i suoi numerosi capi.
Temo che questo chiarimento, una vittoria elettorale moderata e nemmeno un mutamento di Hamas cambierebbe gli israeliani: questo governo di Netanyahu, Lieberman e alcuni rabbini fondamentalisti, semplicemente non vuole uno Stato palestinese. Ma i palestinesi hanno il dovere di farlo per dare un senso forte e definitivo alla loro causa.