“Ci hanno abbandonati, sputando sul piatto nel quale hanno mangiato per 30 anni”, diceva più con tristezza che risentimento un sostenitore di Ahmed Shafik. Quelli che ormai sembrano gli sconfitti, il vecchio regime, si sono radunati a Eliopolis davanti al monumento dedicato ad Anwar Sadat. Non c’era nulla da celebrare, per loro era solo un modo per stare insieme e lenire la sofferenza. E non erano molti: quando il passato finisce, i più attenti fra quelli che vi avevano fatto parte sono già altrove, a contrattare con il futuro.
Quel nostalgico di Mubarak del quale Shafik era un pallidissimo imitatore, non aveva torto. Non hanno perso le elezioni per colpa degli occidentali ma certamente americani e inglesi hanno convinto i militari a smetterla di barare in quel modo. Tutti sapevano che le elezioni presidenziali le avevano vinte i Fratelli musulmani. Ciononostante, se non ci fossero state “quelle interferenze straniere” lo Scaf, la giunta militare, avrebbe fatto proclamare Shafik presidente: qualsiasi cosa avesse detto lo spoglio delle urne. Così, dopo aver blandito, finanziato e armato Mubarak che per 30 anni è stato un robot dell’Occidente – il piatto nel quale ora si sputa – americani e inglesi sono passati dalla parte della fratellanza. (Non risulta che l’Italia abbia avuto un qualche ruolo di pressione o mediazione in questa vicenda).
Così ora l’Egitto avrà un presidente. Ma non ancora un sistema democratico. Restano sconosciuti i poteri del capo dello Stato, quelli del governo, l’equilibrio fra i poteri esecutivi, il ruolo del Parlamento, gli spazi delle opposizioni, il ruolo delle forze armate. E tutto resterà così fino a che non sarà scritta una Costituzione. Nemmeno a chi spetti farlo è stato chiarito. Per questo il potere dei militari e piazza Tahrir restano ancora una forza incontrollabile e decisiva.
Ma per quanto tempo un Paese può essere conosciuto solo per le immagini delle manifestazioni in una piazza? E per quanto tempo un grande Paese come l’Egitto può consumare nel calore di quella piazza le sue risorse civili ed economiche senza trovare una soluzione? Sono passati 16 mesi dall’inizio della rivolta di piazza Tahrir. Si è votato per un referendum e in 12 elezioni. Eppure oggi l’Egitto non ha un parlamento, un presidente né una costituzione. Ed è lontano dall’essere chiaro se il futuro debba essere scritto dai militari, dai Fratelli musulmani o, come dovrebbe essere, da tutte le forze che in questa fase rivoluzionaria troppo lunga sono emerse come legittime rappresentanti delle diversità egiziane. Insieme, in uno sforzo nazionale congiunto.
Per quante istituzioni si affermino e quante costituzioni si scrivano, il problema dell’Egitto moderno, prima e dopo Nasser, non è mai stato quello di avere un governo. Tutti i Paesi e tutti i regimi sono capaci di darsene uno, prima o poi. Il problema è avere un progetto che non serva solo gli interessi di un gruppo di potere: il re, i militari, i musulmani, i burocrati di Stato, gli imprenditori privati. E’ ciò che l’Egitto non l’ha mai avuto, altrimenti non avrebbe il 40% della sua popolazione sotto il livello di povertà.
Se l’Egitto non diventa un Paese normale, il Medio Oriente arabo non diventa una regione normale. Se si possono ancora chiamare così, le Primavere arabe sono tutte a metà del guado. Alcune sono piene di speranza, per altre il guado è zuppo di sangue. Ma se alla fine fallisse quella egiziana, fallirebbero tutte.