Nel suo piccolo, anche la Palestina è davanti a un agosto di pericoli e sofferenze finanziarie. Non ci sono soldi in cassa per pagare gli stipendi. Già da giugno i quasi 150mila dipendenti pubblici dell’Autorità palestinese ricevono il 60% del salario. Servono 160 milioni di dollari al mese. Adesso.
Quando non arrivavano dai Paesi donatori (gli arabi del Golfo perché dimenticano gli impegni, l’Unione Europea perché sono finiti i soldi), il governo s’indebitava con le banche palestinesi. Ma con un buco di 1,3 miliardi in una economia da 12, le linee di credito si sono prosciugate.
Sono storie che in Europa non ci commuovono più, le abbiamo in casa. Questa palestinese, però, dovrebbe sollevare qualche preoccupazione. In tutte le crisi, i partiti al potere perdono consensi e le opposizioni crescono: nel caso palestinese è Fatah che scende e Hamas che sale. A Gaza, dove governa, il premier Ismail Haniyeh del partito islamico paga regolarmente gli stipendi con le valige di contante che l’Iran e le fratellanze fanno passare dai tunnel al confine con l’Egitto. Fatah che invece governa in Cisgiordania, non ha un soldo.
Come è ovvio, secondo un sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research, tre mesi fa Abu Mazen superava Ismail Haniyeh 54 a 42; ora 49 a 44 e il presidente a Ramallah è in calo costante.
Ancora più di noi, dovrebbero preoccuparsi gli israeliani i quali invece hanno rimosso dai loro pensieri il problema palestinese. Se quelli in Cisgiordania non sparano e non fanno più attentati, la questione non esiste. Non esiste perché i 28mila ufficiali e agenti dei servizi di sicurezza palestinesi, in stretto contatto e coordinamento con gli israeliani, impediscono che qualcuno torni a credere che la lotta armata sia una soluzione.
Ma anche poliziotti e soldati sono fra i 150mila dipendenti pubblici che rischiano il salario, già ridotto al 60%. Senza soldi, senza un processo negoziale che porti a uno Stato, qualche settimana fa anche il New York Times constatava che una terza Intifada cova sotto la calma piatta della Cisgiordania. La seconda fu devastante e un errore politico tragico per i palestinesi. Ma la disperazione impedisce di distinguere cosa sia bene e cosa male.
Durante l’ultima Intifada Zalman Shoval, uno dei principi-senatori del Likud, mi disse: “Negli anni Trenta e Quaranta, mentre i palestinesi pensavano solo al modo di ributtare gli ebrei in mare; mentre riempivano la testa della loro gente di slogan e li lasciavano nella povertà e nell’ignoranza, affidandosi a un Gran muftì pazzo. Mentre facevano tutto questo, noi ebrei costruivamo scuole, università, la nostra economia: banche, fabbriche, agricoltura, sindacati, associazioni professionali; i boys scout, una polizia che desse le multe, un esercito che ci difendesse, una burocrazia e un governo che ci amministrassero. Loro gridavano e promettevano una grande vittoria: noi costruivamo uno Stato”.
Un’analisi storica ineccepibile. In questi anni però Abu Mazen e Salam Fayyad, il suo primo ministro, hanno creato come gli israeliani: strutture statali, una banca centrale che garantisce una trasparenza riconosciuta anche dal Governatore israeliano Stanley Fischer (c’è anche una moneta pronta per essere battuta non appena ci sarà uno Stato); apparati di sicurezza che rispondono solo al potere centrale. Nelle città, nelle università, nei campi profughi sono tornati ordine e sicurezza. L’economia privata è attiva ma sarebbe vibrante se non ci fossero posti di blocco israeliani ovunque e se avesse dogane aperte attraverso cui far passare i suoi prodotti. L’accordo commerciale israelo-palestinese firmato il primo agosto è eccellente ma non basta.
Passando anche per Israele, nel suo disastroso viaggio all’estero, il candidato repubblicano Mitt Romney, ha fatto intendere che se l’economia israeliana funziona e la palestinese no, è una questione “culturale”. Tralasciando il razzismo sottinteso alla dichiarazione, Romney naturalmente ignora che i palestinesi siano sotto occupazione militare dal 1967.
Per la loro scelta coraggiosa e non facile, Abu Mazen e Fayyad hanno avuto in cambio indifferenza. Prima gli israeliani dicevano comprensibilmente: come possiamo fare la pace con Arafat e l’anarchia di milizie della Cisgiordania? Ora dicono: non ci attaccano più, dunque va tutto bene. Poiché sono solo un problema di sicurezza, per un Israele rassicurato i palestinesi non esistono. E se percorrono con un certo velleitarismo la via diplomatica, passando per le Nazioni Unite, ecco che di nuovo provocano. E’ conseguenziale che la lotta armata e chi la proclama, alla fine guadagnino punti, se le alternative migliori non pagano mai.