Statistiche e sondaggi, solitamente fatti per spiegare, a volte disorientano. Ha’haretz la settimana scorsa ha pubblicato un rilevamento secondo il quale il 47% degli israeliani sarebbe a favore dell’espulsione degli arabi israeliani: cioè del 20% circa della popolazione dello Stato d’Israele ma di origine palestinese: coloro che nella guerra del 1948 non fuggirono né furono cacciati da quel territorio che sarebbe diventato Stato degli ebrei.
E’ un sondaggio, non una statistica. Ma Ha’aretz non scrive bugie: è un giornale di sinistra nelle opinioni, non nelle notizie. Poi ci sono le statistiche economiche che riguardano il successo dell’hi-tech israeliano. Sono almeno 63 le aziende israeliane quotate al Nasdaq di New York: dopo il Canada, nessun altro Paese ne ha così tante nella Borsa dei titoli tecnologici. In Israele si sono spesi 2 miliardi di dollari in venture capital, cioè il capitale di rischio che un investitore mette per finanziare una nuova attività. Anche Germania e Francia insieme registrano la stessa cifra: ma insieme fanno 145 milioni di abitanti. Israele sette, compresi gli arabi. Infine, come conseguenza, in Israele si fa una start up ogni 1844 abitanti: la più alta densità di nascita d’imprese al mondo.
Se le tecnologie e la finanza non sono entità cieche prodotte da robot ma realizzazioni di una società avanzata che cerca il benessere, guarda al futuro, sfrutta il dinamismo e il suo alto livello di educazione. Se le cose stanno così, come si coniuga tutto questo con quel 47% di israeliani favorevoli all’apartheid? Sul piano della stretta correttezza, l’uso della parola afrikaans non è preciso. Gli autori del sondaggio ammettono che la maggioranza degli intervistati non sapeva cosa significasse apartheid.
In un certo senso è peggio: un gran numero di israeliani, figli del popolo più oppresso e perseguitato della Storia, non sa cosa sia stato l’apartheid e probabilmente non sa nulla di Nelson Mandela: a parte forse che fu per qualche tempo presidente del Sudafrica, adottando verso Israele una politica molto meno amichevole rispetto ai suoi predecessori bianchi e razzisti.
Come convive questo oscurantismo con quel
rinascimento, con quell’hi-tech che noi in Italia ci sogniamo? Evitiamo le
solite cretinate tipo Sparta e Atene. Solo una società avanzata sa trasformare
in dividendo della pace un complesso militare-industriale, origine di
quell’eccellenza tecnologica. Non posso credere che un conflitto lungo e drammatico
con i palestinesi possa giustificare da solo uno sdoppiamento così radicale
dell’identità di uno stesso popolo.
Solo sondaggi e numeri, possiamo dire. Ma
annunciando elezioni anticipate con l’intenzione di vincere in sicurezza, per
vincere ancora di più in sicurezza Bibi Netanyahu ha deciso che il suo partito,
il Likud, presenterà una lista comune con Yisrael Beitenu di destra estrema: è
il partito dei russi il cui leader, il ministro degli Esteri Avidgor Lieberman,
ex buttafuori nella Moldavia sovietica, ha come modello la democrazia di
Vladimir Putin.
A parte l’aspetto politico positivo della
decisione – costringerà finalmente l’intero centro sinistra, i suoi deboli
partiti e le troppe prime donne, a unirsi per non essere travolti – la
decisione è un pericolo per la democrazia d’Israele. Bibi e Lieberman insieme
sono gli ideali e presto concreti campioni di quel 47%: i leader alla Knesset
di una maggioranza relativa di ultra conservatori, nazional-religiosi,
fondamentalisti religiosi e ideologici che sogna di trasformare in legge il
parere legale scritto l’estate scorsa da una commissione di giuristi guidati da
Edmond Levy della Corte Suprema. Non esiste occupazione di territori altrui, è
il parere di Levy che riguardava gli avamposti delle colonie ebraiche in Cisgiordania
ma che può essere esteso ovunque gli israeliani vogliano, in quelli che per il
resto del mondo sono territori palestinesi occupati.
“Nel
continuo sforzo ideologico di una intera generazione, alla fine la destra è
riuscita a impregnare dei suoi valori la società”, scrive Zeev Sternhel
commentando su Ha’haretz il senso di quel 47%. “Se si può annettere dei
territori non è necessario annettere gli esseri umani che li abitano. Gli arabi
resteranno con lo status di popolazione non occupata a causa dei territori –
secondo quanto afferma Levy – perché i territori non sono territori occupati”.
Sternhel
è una delle ragioni per cui non si deve smettere di amare Israele. Studioso di
fama mondiale del fascismo europeo all’Università Ebraica di Gerusalemme, della
materia è anche un esperto sul campo. Era nato in Polonia e per non scomparire
nei campi di sterminio come il resto della sua famiglia, si fece battezzare con
il nome di Zbigniew Orolski. Fece per un po’ il chierichetto della cattedrale
di Cracovia. Nel 1946, finalmente, riuscì a emigrare in Israele. Sternhel ha
trasformato il suo diritto istintivo di odiare nella necessità civile di
diventare un attivista di Peace Now, il movimento pacifista israeliano.
Quello che hanno in mente i sostenitori
dell’idea di Edmund Levy è perfino peggio di ciò che sostiene il 47% del
sondaggio. I secondi “almeno” sono pronti a deportare gli arabi israeliani
nell’Autorità palestinese di Abu Mazen, riconoscendo a loro almeno una
diversità. Per i primi invece, i palestinesi delle aree occupate dalle colonie
non sono niente: fantasmi che camminano, popolazione da file ai check-point.
Torniamo così al quesito originale. Espellere
i diversi o rubare un’altra collina per allargare una colonia ebraica, chiude
Israele in uno stato etnico-confessionale d’altri tempi. I tempi e le necessità
dell’hi-tech sono invece la globalizzazione, la fantasia, il continuo confronto
con le diversità: un mondo nel quale Israele ha il diritto di rivendicare la
sua impronta fondante ebraica ma aperta a quelle diversità.
Alla dicotomia che propongo non c’è una
risposta perché più di un dilemma fra statistiche e numeri, è una battaglia, uno
scontro interno appena iniziato. Per la sicurezza d’Israele, determinare il
vincitore sarà più essenziale della minaccia nucleare iraniana.