Per festeggiare i 60 anni dell’amato leader, un gruppo di scalatori russi ha portato un suo ritratto in vetta, a 4.100 metri. Poi lo ha fissato alla roccia “indistruttibile ed eterna come Vladimir Putin”. Il culto della personalità non è una buona cosa da nessuna parte ma nell’ex Unione Sovietica è un segnale di pericolo. E sta tornando in Ucraina, non è mai scomparso in Bielorussia, ha assunto il volto del “leader buono” nelle ex repubbliche asiatiche. E’ il fantasma di Stalin che, inquieto, continua a percorrere il suo vecchio impero.
Forse perché il mondo della propria giovinezza appare sempre come il più bello, quando s’invecchia; forse perché pensa che basti tornare al passato per tornare a essere una superpotenza, Putin ha riportato unilateralmente le lancette della Storia agli anni della Guerra fredda. Diversamente da quegli anni sovietici, la Russia di Putin conta poco ma come in quegli anni è in mezzo a una zastoy, una stagnazione.
In generale la gente vive meglio grazie a gas e petrolio. Ma la Russia sembra sempre più un’Arabia Saudita: oltre gli idrocarburi non c’è nulla. Infrastrutture mediocri, industria irrilevante, investimenti tecnologici scarsi. In realtà i sauditi si stanno sforzando di diversificare. La Russia di Putin no.
E’ con un uomo che sta perdendo contatto con la realtà del mondo, che Barack Obama dovrà trattare nei prossimi quattro anni. E’ come se i 20 anni passati al potere e i 12 che si è ritagliato cambiando la Costituzione, lo avessero accecato: qualsiasi segnale di critica che viene dalla società civile russa, qualsiasi cosa dica o faccia l’Occidente, tutto si trasforma in una minaccia alla stabilità e alla grandezza della Russia.
E’ dal primo anno del primo mandato di George
Bush che la Russia non è più così importante per l’America. Fu Condolezza Rice,
allora consigliere per la sicurezza nazionale, ad annunciare che per la prima
volta dal 1945 la Russia usciva dalle cinque priorità delle riunioni del
mattino alla Casa Bianca. Non vi è più tornata. Ma Vladimir Putin ha ancora il
controllo di un arsenale nucleare di almeno 5mila testate. Più o meno come gli
Stati Uniti: insieme le due potenze possiedono quasi il 95% delle armi atomiche
del mondo. Altro che Iran.
Una minaccia nucleare russa è impensabile, la
loro gli iraniani la annunciano. Ma la regressione nazionalista di Putin deve
comunque mettere in guardia.
A ottobre il governo russo ha annunciato
che non rinnoverà il Cooperative Threat Reduction Program firmato 20 anni fa con
gli Stati Uniti. E’ l’accordo pensato e realizzato da Sam Nunn, senatore
democratico della Georgia e da Richard Lugar, repubblicano dell’Indiana, per
mettere in sicurezza e progressivamente smantellare l’arsenale nucleare e
chimico sovietico. Con i soldi dei contribuenti americani perché la Russia di
Eltsin era alla fame, il programma Nunn-Lugar permise di disattivare 7.600
testate nucleari strategiche, tonnellate di agenti chimici, razzi e altro
equipaggiamento militare. Incredibilmente non è stato mai dato un Nobel per la
pace a Nunn e Lugar.
Il governo russo ha deciso che dalla prossima
primavera il programma finirà. Non ci sarà più controllo sul materiale
rimanente. Nella Russia di questa nuova zastoy
, terroristi, mestatori e ambigui mercanti si metteranno in fila ad
aspettare fiduciosi il loro momento. Nei giorni successivi Putin ha assistito
alla più grande esercitazione delle forze strategiche nucleari russe. “Vladimir
Putin ha dato un’alta valutazione alle unità combattenti, agli equipaggi e al
lavoro dello Stato Maggiore delle Forze Armate, i quali hanno realizzato gli
obiettivi e affermato la credibilità e l’efficacia delle Forze Nucleari Russe”,
spiegava un comunicato del Cremlino nella amata lingua di legno dei bei tempi.
Il Nuovo START, il trattato sulla riduzione
delle armi strategiche, firmato da Obama e Dmitry Medvedev a Praga nel 2010, è
stato approvato dal senato americano e dalla duma russa. Ma non è ancora partito.
Prevede di ridurre a 1.550 le testate operative, quelle che potrebbero essere
lanciate anche adesso: le americane sono 2.202 e le russe 2787. L’obiettivo del
trattato era di allargarlo all’intero inventario nucleare dei due Paesi: circa
10.000 bombe è la somma. I conteggi sono complicati, le armi di diversa natura
e molti i lanciatori: razzi, cannoni, sommergibili, bombardieri. La trattativa
è evidentemente complicata e comprensibile agli addetti: è questo che fa
pensare ai più che la questione del disarmo nucleare sia noiosa, anziché
fondamentale per il nostro futuro.
Ma la vera differenza fra Barack Obama e
Vladimir Putin è che il primo dichiara di puntare a una riduzione costante,
fino a “un mondo libero dalle armi nucleari”. Per Putin la bomba continua a
essere una ragion d’essere: l’arma che garantisce una potenza tangibile,
misurabile.
Ma Obama ha un altro ostacolo che gli rende
difficile fare qualsiasi passo avanti – neanche parlare del sogno finale. A
Washington sono ancora in molti a pensarla come Putin. I repubblicani e qualche
democratico del Congresso, restano convinti che il nucleare militare resti uno
strumento fondamentale della potenza americana. Durante la campagna elettorale,
quando sosteneva che “la Russia è l’avversario geopolitico numero uno”, Mitt Romney
su è come appiattito sulla retorica putiniana.
Nonostante la crisi economica, la Russia ha
presentato un bilancio militare da 620 miliardi di dollari. E nonostante la
crisi americana, Romney aveva proposto un incremento di spese per la difesa che
nemmeno il Pentagono chiedeva. Ha perso le elezioni ma alla Camera dei
rappresentanti a maggioranza repubblicana, molti continuano ad essere d’accordo
con lui. Con tutta questa retorica di
potenza in Campidoglio, Vladimir Putin si sarà davvero convinto di essere un
numero uno.