Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 10/11/2012
Finita la campagna elettorale americana, se ne apre un’altra, quella israeliana: le elezioni anticipate convocate da Bibi Netanyahu, si terranno a gennaio. Il legame fra due eventi di politica interna a 7mila chilometri di distanza, è forte: Barack Obama interferirà per mettere in difficoltà il primo ministro israeliano, come Netanyahu ha fatto in quelle americane nel tentativo di dare una mano a Mitt Romney.
Se si parla di diplomazia, è il Medio Oriente il capitolo più impellente del secondo mandato di Barack Obama, rimasto incompiuto nel primo. Come comportarsi con la Cina oggi è in realtà molto più essenziale per il futuro americano. Ma a breve è il Medio Oriente che può trascinare gli Stati Unti in una guerra.
Sono tanti i problemi della regione ma per molti di loro non si vedono prospettive. Le Primavere arabe hanno preso le loro strade e, come prima, l’amministrazione Obama sarà più un facilitatore di dinamiche locali che un promotore di politiche. La Siria è il problema più drammatico ma non il più urgente: nel senso che non vi è nulla che gli Stati Uniti possano fare. Turchia, Qatar e Arabia Saudita sostengono e armano le opposizioni. Americani ed europei collaborano: sul piano militare in modo più discreto, su quello politico con più evidenza. Ma fino a che non nascerà un fronte unito fra gli oppositori siriani, se non sarà chiaro quanto forti sono i qaedisti e fino a quando cinesi e russi porranno i loro veti, gli americani hanno pochi strumenti per fermare il massacro. In campagna elettorale anche Romney aveva escluso qualsiasi forma d’intervento militare diretto.
Poi c’è la questione palestinese, il più lungo dei conflitti del nostro tempo. La malizia di Bibi Netanyahu e l’assenza di realismo palestinese hanno congelato il problema. Le cose potrebbero cambiare, avere un nuovo impulso se il Likud perdesse le elezioni. Al momento sembra altamente improbabile. Ma se, liberato dai problemi giudiziari, Ehud Olmert tornasse in politica accompagnato da Tzipi Livni, il voto israeliano diventerebbe interessante.
L’importanza di quelle elezioni, le
interferenze di Obama, le ansie dell’amministrazione americana e le resurrezioni
politiche a Gerusalemme non hanno come obiettivo la questione palestinese,
chiusa in un congelatore diplomatico. E’ l’Iran la causa di tanto agitarsi, la priorità regionale dell’amministrazione
americana. Barack Obama è convinto che con l’Iran si possa ancora trattare, che
le sanzioni economiche funzionino, che una moneta locale privata del 75% del
suo valore non possa che far riflettere il potere a Tehran. E’ la dottrina
Obama che ha guidato il primo mandato e si rafforzerà nel secondo, ad essere in
gioco. Che lo facciano gli iraniani vittime delle loro stesse rigidità
ideologiche, è messo in conto. Ma che sia un alleato come Israele a boicottare
la dottrina americana del dialogo, questo per Obama è inaccettabile.
Mancavano 48 ore al voto presidenziale di
martedì, quando Bibi Netanyahu era apparso in tv per ribadire che se deciderà
di farlo, Israele non chiederà a nessuno, nemmeno agli americani, il permesso
di bombardare i siti nucleari iraniani. Era una dichiarazione di voto a favore
di Mitt Romney. Mercoledì, a cose fatte, Netanyahu ha convocato la stampa e uno
stupito ambasciatore americano per ribadire la sua personale amicizia con Obama
e il legame fra i due Paesi.
“Guardando quello che Bibi ha fatto negli
ultimi mesi, la domanda è: il nostro primo ministro ha ancora amici alla Casa
Bianca?”, si chiede Ehud Olmert. “Non ne sono certo e saperlo potrebbe essere
molto importante per noi, nei momenti critici”. Quelle di Olmert, fondatore di
Kadima con Ariel Sharon, ex premier andato vicino a un accordo con i
palestinesi, costretto al ritiro da uno scandalo dal quale è stato recentemente
scagionato, sembrano più di una domanda e una risposta. Assomigliano a una candidatura.
Un’opposizione credibile è ciò di cui ha bisogno l’amministrazione americana
per rendere la vita difficile a Bibi, detestato da tutti i presidenti americani.
Israele ha molti assunti strategici ma il più
importate è l’alleanza con gli Stati Uniti. Non è la prima volta che gli
americani partecipano attivamente alle elezioni israeliane: nel 1992 George Bush
padre fu decisivo per la vittoria del laburista Yitzhak Rabin e la sconfitta
del Likud di Yitzhak Shamir; accadde di nuovo nel 1999 con Bill Clinton che
massacrò Bibi con una dichiarazione di voto per Ehud Barak, allora leader
laburista. Se Netanyahu perdesse ancora e gli iraniani accettassero un
compromesso sul nucleare, anche la guerra in Siria potrebbe essere
cauterizzata, il Libano stabilizzato, la trattativa palestinese riaperta. Ma
questi sarebbero miracoli e in Medio Oriente è da molto tempo che non se ne
vedono.