Fra qualche giorno si commemorano i 40 anni della guerra del Kippur, la “Guerra d’ottobre” per gli egiziani. Apparentemente fu il meno importante dei conflitti arabo-israeliani: trovò e lasciò come erano i territori occupati da Israele sei anni prima, nel 1967. La pace con l’Egitto e il ritiro dal Sinai che seguirono nel ’79, prima o poi ci sarebbero stati comunque. E se Golda Meir avesse ascoltato Anwar Sadat e Henry Kissinger che invocavano un negoziato sul Sinai, la guerra del Kippur non si sarebbe nemmeno combattuta.
Eppure fu quel conflitto che determinò più di ogni altro avvenimento contemporaneo la psicologia, la postura e le strategie militari dell’intero popolo d’Israele. Il sei ottobre 1973 il Paese era stato colto di sorpresa dall’avanzata egiziana a Sud e da quella siriana a Nord. Dopo la sensazione di onnipotenza della guerra dei Sei giorni, le forze armate scoprirono di essere inadeguate. Per una settimana fu temuta la catastrofe e solo un gigantesco ponte aereo militare americano l’impedì.
Gli israeliani decisero che non sarebbe mai più accaduto. Da quel momento i militari diventarono ancora più di prima il pilastro del Paese, le forze armate furono modernizzate, tecnologie di altissimo livello vennero introdotte: le stesse che, trasferite nel civile, avrebbero contribuito al fenomeno dell’hi-tech e delle startup.
Israele diventò una fortezza iper-armata.
Prima che nel 2003 gli Stati Uniti eliminassero le forze armate irachene, le
sole ancora minacciose, era stato calcolato che per perdere la sua superiorità
militare sul Mondo arabo, Israele avrebbe dovuto non investire in armamenti per
10 anni. Oggi il divario è ancora più grande.
Ma allora, nell’ottobre del ’73, dagli incubi
di ogni israeliano riemerse l’Olocausto. Evidentemente non lo avevano mai
dimenticato ma il più grande massacro scientificamente premeditato della Storia,
era più un fatto personale di ogni singolo israeliano che dell’intero Israele.
La tendenza dei sopravvissuti e dello Stato socialista nato per forgiare il
“Nuovo Ebreo”, era collettivamente dimenticare.
La guerra del Kippur aveva posto di nuovo
come eventualità la distruzione di una comunità ebraica. Nel 1977, la vittoria
elettorale delle destre e di Menachem Begin trasformò l’Olocausto in un fattore
politico permanente: Arafat era come Hitler, uno Stato palestinese avrebbe
portato a un altro Olocausto. Quella tragedia passata rendeva giustificabile
nel presente ogni comportamento politico e militare. Non ha più smesso di
essere così. I nemici degli accordi di Oslo disegnarono i baffi e il ciuffo
hitleriano sui ritratti di Yitzhak Rabin: sotto quelle orribili immagini il
giovane Bibi Netanyahu teneva i suoi comizi violenti, istigando l’assassino di
Rabin; quando Sharon ordinò il ritiro da Gaza nel 2005, i coloni lo accusarono
di essere un Goebbels; è per impedire “un nuovo Olocausto” che Bibi Netanyahu
vuole bombardare l’Iran.
E, di nuovo l’anno scorso, dopo la
maggioranza travolgente dell’Onu a favore di uno Stato palestinese; qualche
mese fa quando l’Unione europea ha deciso di boicottare i prodotti israeliani
che vengono dai Territori occupati: ogni volta che facciamo qualche cosa che
Israele non gradisce, diventiamo tutti antisemiti intenti alla preparazione di
un nuovo olocausto.
Qualche
tempo fa Tom Friedman del New York Times ha scritto che “Israele è Yad Vashem
con un’aviazione”: Yad Vashem, a Gerusalemme accanto al monte Herzl dove
riposano gli Eroi d’Israele, è il commovente memoriale dell’Olocausto. Un Paese
che ama credere di essere solo al mondo, detestato, perseguitato, per
giustificare una forza armata che supera di gran lunga la potenza di cui ha
bisogno per garantire il suo diritto alla sicurezza: un diritto riconosciuto
dalla sconfinata maggioranza del mondo e protetto dagli Stati Uniti al prezzo
del loro interesse nazionale in Medio Oriente.
L’uso politico dell’Olocausto non è un tema
di cui parlo volentieri: me lo impedisce il mio senso di colpa di europeo e
cristiano nato solo un decennio dopo l’Olocausto. Credo che spetti soprattutto agli
ebrei parlarne. Lo faccio ora perché qualche giorno fa è stato Ha’aretz a
scriverne in un editoriale molto interessante. “Oggi Israele è un’entità forte
e indipendente, accettata dalla comunità internazionale”, scrive il quotidiano
della sinistra israeliana. “La memoria dell’Olocausto è un dovere storico, un
monumento alla brutalità umana che non deve essere dimenticato. Ma non può
costituire una considerazione strategica o di sicurezza alla quale riferirsi per
i capi di governo e militari. Il loro dovere è delineare la strategia
israeliana, la sua diplomazia e le scelte militari, focalizzandosi sul futuro e
sui bisogni del popolo che non vuole vivere prigioniero dei traumi passati”.
Shalom e L’shana tovah tikatev v’taihatem, anche se con un po’ di ritardo.
Allego il commento sul disgelo fra Stati
Uniti e Iran, uscito sulle pagine del Sole-24 Ore.