Dovendo misurare da uno a dieci il risultato del negoziato Teheran Contro Tutti, otto non è eccessivo ma probabilmente un giudizio equo. Essere arrivati a un passo dall’accordo non è mai un fallimento. Nella definizione sportiva di “quasi gol” non prevale l’errore ma quanto vicina una squadra sia arrivata alla rete. E in questo caso non aver segnato così in fretta fa comodo a tutti: è il risultato migliore possibile, per il momento. Perfino meglio di un accordo.
Non crediate che i francesi siano stati la voce fuori dal coro, versione diplomatica dell’averla fatta fuori dal vaso. Certo la grandeur, il bisogno di distinguersi (oui, je suis Laurent Fabius). Probabilmente il compito dei francesi è stato quello di tranquillizzare le ansie di Israele e Arabia Saudita, il timore dei quali non è del tutto infondato: pur di avere un successo in Medio Oriente, gli Stati Uniti potrebbero accettare un accordo al ribasso.
Non gli iraniani, non gli americani, gli europei, i russi né i cinesi si aspettavano che al secondo incontro a Ginevra si potesse già arrivare a un accordo sul nucleare. Ogni ministro degli Esteri aveva già fissato altri impegni lontano dalla Svizzera, per il weekend. Stava accadendo una di quelle cose che non capitano quasi mai in diplomazia: il prevalere del comune entusiasmo per un accordo, più forte del realismo necessario per raggiungere effettivamente quell’accordo.
Qualcosa di simile stava per succedere a Reykjavik nell’ottobre 1986, quando Gorbaciov e Reagan arrivarono a un passo dall’eliminazione dei missili balistici strategici dal mondo e delle armi nucleari intermedie dal teatro europeo. Non accadde e se fosse accaduto Gorbaciov sarebbe stato defenestrato come Nikita Khrushov. Ma fu il preludio necessario ai successivi accordi sulle armi nucleari, raggiunti gradualmente.
Come il miracolo di Reykjavik, il compromesso
sul nucleare iraniano che stava quasi nascendo da solo a Ginevra, avrebbe avuto
troppi nemici: il presidente Rohani e i suoi riformatori avrebbero dovuto
confrontarsi con i falchi, la parte più importante del regime a Teheran;
l’amministrazione Obama con Israele e Arabia Saudita, gli alleati più
importanti della regione. Israele, in particolare, ha il potere di scatenare il
Congresso contro qualsiasi accordo che non si avvicini ai suoi requisiti di
sicurezza.
L’accordo alla fine non è stato raggiunto.
Come spiega il segretario di Stato John Kerry, non si è fatto perché l’Iran non
intende rinunciare al suo diritto di arricchire l’uranio. Le obiezioni
francesi, in qualche modo erano le obiezioni di tutti gli altri: Usa, Gran
Bretagna, Germania, Ue, Onu. Perfino Russia e Cina alle quali fa sempre piacere
mettere in difficoltà l’America ma non fino al punto di veder nascere una nuova
potenza nucleare di stampo islamico in Asia.
Tuttavia Ginevra merita comunque l’otto
perché il non accordo per il momento è meglio di un accordo. Americani e
iraniani possono rassicurare gli scettici della loro parte. Nessuno sta
svendendo nulla: non l’orgoglio nazionale Rohani, non la sicurezza della
regione Obama.
Ma l’accordo ci sarà. Al prossimo incontro
di Ginevra, il 22 novembre; più facilmente fra qualche mese. Alle obiezioni
iraniane sull’arricchimento dell’uranio si possono dare risposte. Per fare una
bomba, cioè per passare dal nucleare civile al militare, è necessario che
l’uranio sia arricchito al 90%. Ma se raggiunge il 20%, il “ medio livello di
purezza”, cioè l’uranio 235, l’isotopo essenziale per la bomba, è molto più
facile e rapido arrivare al fatidico 90 con l’aiuto delle centrifughe di ultima
generazione. L’Iran possiede
6.774
chili di uranio arricchito al 3,5%. E 186 al 20 che con le sue 19mila
centrifughe può raggiungere il 90 in meno di due mesi. La bomba è tecnicamente
vicina anche se occorrerebbe molto tempo per costruire un vettore capace di
usarla con efficacia.
I compromessi possibili sono già stati
individuati dai negoziatori. L’Iran può ridurre il numero delle centrifughe in
funzione; può congelare o distruggere i 186 chili di uranio al 20%; può ridurre
o eliminare tutte le sue scorte di uranio ma non le centrifughe, mantenendo
quindi la sua capacità tecnica di arricchire l’isotopo 235.
Perché
il regime degli ayatollah nella versione riformata di Rohani dovrebbe farlo? In
questi vent’anni tutti i Paesi produttori di petrolio si sono arricchiti grazie
al balzo del prezzo del barile. Tutti tranne l’Iran il quale prima ha
sperperato le sue ricchezze per finanziare le sue ambizioni politiche, poi ha
subito le pesanti sanzioni internazionali: l’Iran è uno dei pochi casi in cui
hanno funzionato. Come le Primavere arabe hanno dimostrato e come già a Teheran
è stato sanguinosamente provato, nessun regime può ignorare un popolo
scontento.