Nello spazio di pochi minuti due commenti di natura opposta sono partiti dalla stessa città, Gerusalemme. Dall’ufficio presidenziale, Shimon Peres ricordava agli iraniani che Israele non è il loro nemico e viceversa, che l’accordo di Ginevra è un buon compromesso e non ha alternative. Non molto lontano, nell’ufficio del primo ministro a Gerusalemme, Bibi Netanyahu sosteneva il contrario: a meno che l’Iran non si arrenda, Israele non si sente impegnato dall’accordo ed è pronto all’azione militare quando la riterrà necessaria.
Essendo il Paese immediatamente interessato al nucleare iraniano se le cose andassero male, il giudizio di Israele sul risultato di Ginevra ha il suo peso. Dopo aver usato in queste settimane tutto il suo arsenale catastrofista per spaventare anche i bambini, ora Netanyahu dice che il mondo è un luogo più pericoloso.
Al contrario, se non è un posto più sicuro, come fa intuire Peres è certamente meno pericoloso del giorno precedente alle notizie venute da Ginevra. Non sono i miracoli che definiscono le qualità della diplomazia ma ciò che è realisticamente possibile raggiungere. Rinunciando a qualcosa delle loro ambizioni, le parti individuano e sviluppano un terreno comune. Il risultato è sempre imperfetto. A meno che non la si concepisca come uno strumento per sconfiggere l’avversario (negoziato a somma zero: io vinco, tu perdi), come israeliani e palestinesi continuano a prediligere nel loro comune problema.
Gli accordi di Ginevra, che sono provvisori, dureranno sei mesi e poi si vedrà, sono un esempio perfetto. Prendiamo i due punti più importanti. Per fare una bomba l’uranio deve essere purificato al 90% e la soglia critica è il 20. Gli iraniani sospendono una parte del loro programma nucleare, s’impegnano a non arricchire l’uranio oltre la soglia del 5% e a ridurre le loro riserve che superano quel limite. Inoltre sospendono l’attività dei reattori che producono acqua pesante, l’altra via per arrivare alla bomba.
Il secondo punto è che nei prossimi sei mesi la comunità internazionale non applicherà nuove sanzioni economiche contro l’Iran e scongelerà sette miliardi di dollari delle vecchie, che l‘Iran potrà immettere subito nella sua economia in crisi. E’ stato calcolato che l’insieme delle sanzioni internazionali stia costando circa 100 miliardi di dollari agli iraniani.
La perfetta imperfezione del compromesso di Ginevra è esattamente in questo. A Teheran Hassan Rohani può dire che l’Iran ha mantenuto il suo diritto di arricchire uranio (era diventato una specie di assunto patriottico) e al tempo stesso che le sanzioni incominciano ad essere eliminate. A Washington Barack Obama può dire che le sanzioni restano in vigore e che gli Stati Uniti hanno costretto l’Iran a rinunciare all’arricchimento: in realtà a restare molto al di sotto della soglia del 20%, ma il vero obiettivo della trattativa è impedire che l’Iran arrivi alla bomba atomica, non l’arricchimento. Anche a Gerusalemme Shimon Peres può dire una cosa e Bibi Netanyahu il suo contrario.
E’ un esempio di quella “opacità costruttiva” sulla quale Henry Kissinger ha costruito la sua fama di negoziatore. I sei mesi dell’accordo ad interim serviranno ai tecnici dell’Agenzia atomica dell’Onu per verificare che gli iraniani mantengano le loro promesse: avranno diritto d’ispezione quotidiana in tutti i siti nucleari iraniani. Contemporaneamente gli iraniani sentiranno i benefici economici dell’accordo: la rivalutazione del Rial, che è già incominciata, e le nuove opportunità di lavoro dovrebbero creare il necessario consenso popolare al compromesso sul nucleare.
Questi sono gli obiettivi. Se le cose funzioneranno, fra sei mesi la trattativa riprenderà più ampia per raggiungere il grande obiettivo: un Iran senza arma nucleare ma di nuovo parte integrante e normale della comunità internazionale. Sei mesi sono lunghi e i nemici dell’accordo agguerriti.