All’inizio di ottobre il presidente di Intersos, Nino Sergi, mi aveva scritto contestando il post su Slow News del 3 agosto, intitolato “La Rai, Al Bano e i profughi. Il morto di fame conquista la prima serata”. Era dedicato al reality “Mission” che la tv di Stato, l’Agenzia Onu per i rifugiati e Intersos, stavano preparando per l’autunno inoltrato.
Contro il reality televisivo dedicato ai profughi avevano firmato più di 100mila persone, raccolte da Andrea Casali sulla piattaforma Change.org. Andrea, uno studente di farmacologia, denunciava la “spettacolarizzazione del dolore”, ricordava l’inadeguatezza di alcuni dei personaggi dello showbiz invitati, dubitava della moralità di un programma televisivo così organizzato su un tema così drammatico.
Ero d’accordo e sul post avevo illustrato i miei dubbi. Sergi li aveva contestati ma non gli avevo risposto, non avendo nulla da aggiungere prima di guardare il programma la cui preparazione, inesorabilmente, andava avanti.
Ieri sera il programma c’è stato. La prima puntata. Campi profughi siriani in Giordania e di africani nel Mali. Devo delle scuse a Sergi. Non posso negare che mi sia piaciuto. O quantomeno che il reality abbia rispettato i canoni di decenza del tema che affrontava. Un programma sobrio, senza interferenze pubblicitarie, ognuno ha fatto la sua parte provocando più di una lacrima.
C’è stata anche molta retorica e qualche banalizzazione. Ma erano retorica e banalizzazioni utili. I personaggi parlavano al pubblico della prima serata di Rai1 il quale ne sa poco di profughi: stretto fra il quiz dei pacchi e telegiornali che di quel tema non parlano quasi mai. Accade solo qualche volta nei tg, dopo i soliti 20 minuti di cicaleccio nazionale, i portavoce dei partiti che ripetono il compitino con gli occhi sgranati sulla telecamera, la cronaca nera e un po’ di rosa. Se le riflessioni piuttosto banali di Al Bano (brave e più naturali le sue due figlie) possono servire alla causa, perché no?
Per la mia esperienza di campi profughi da giornalista, credo sia stata colta l’essenza del problema. E’ stato descritto decentemente l’elemento umano, oltre che quello umanitario. C’è stato perfino qualche gesto coraggioso: Roger Waters dei Pink Floyd, testimonial Onu e della causa palestinese, è un mio mito. Ma non è proprio un personaggio da prima serata del canale nazional-popolare.
Mi piace pensare che siano stati Andrea Casali e le 100mila firme a spingere gli ideatori a rendere seria una trasmissione forse pensata originariamente più scoppiettante. Nei loro abiti così severi Michele Cucuzza e la mia amica Roula Jebreal sembravano i due contadini dell’Iowa di American Ghotic, il famoso ritratto di Grant Wood. Così lo studio: scarno, scomode casse di legno da trading post nella foresta, sulle quali sedere perché gli ospiti ricordino che siamo nati per soffrire.
In questo rigore – quasi eccessivo, che i diffidenti possono interpretare come la prova di un senso di colpa – diamo per scontato che presentatori, protagonisti e ospiti stiano lavorando gratis. Il grillino Roberto Fico, il quale ha notato che nella prossima trasmissione Paola Barale si aggira fra i profughi con occhiali da sole griffati, ha chiesto conto di questo. Il direttore di Rai Uno Giancarlo Leone non ha risposto.
Ripeto: diamo per scontato che non ci siano cachet. Al Bano che fa l’operaio, sua figlia che vuole farsi operatrice umanitaria, Pandolfino che ripete il numero di telefono al quale mandare gli aiuti, la commozione generale, sono stati un buon momento di televisione. Un atto di coraggio in prima serata. Se avessero preso i soldi come in uno dei soliti spettacoli dove si balla e si canta, “Mission” sarebbe stata una mediocre italianata: facimm ammuina, dicono a Napoli con magnifica efficacia. Per fortuna non è stato così.
Non è stato così, vero?