L’ipotetico pilastro della sicurezza continentale, è nel cuore di Vienna. Nel palazzo di Hofburg che fino al 1918 fu la residenza di città degli Asburgo, il cui impero multietnico merita in fondo una rivalutazione storica, alla luce degli avvenimenti di oggi.
Hofburg è la sede dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, creata dalla Conferenza di Helsinki del 1975 e rinforzata negli anni della Perestroika da un’altra conferenza a Parigi, nel 1990. “La casa comune europea da Vancouver a Vladivostok”, si diceva allora, pieni di speranza, indicando uno spazio che geograficamente occupava il Nord di tre continenti ma politicamente ne aveva al centro uno, l’Europa, un tempo fabbrica di conflitti, finalmente pacificata.
Ci sarebbero poi stati i massacri balcanici e una guerra in Georgia, considerati “fenomeni d’assestamento periferici”, ma nessun conflitto avrebbe potuto trasformare il continente in un campo di battaglia. L’Ucraina invece può.
L’Osce con presidenza a rotazione, ora svizzera, alla quale aderiscono 57 Paesi, compresi i protagonisti diretti e indiretti della crisi in corso, sembra improvvisamente una casa comune inadeguata. I suoi osservatori erano stati ripetutamente respinti alla frontiera della Crimea, prima che la Russia, un membro fondamentale dell’organizzazione, ne approvasse solo ieri la missione dagli orizzonti forzatamente limitati.
E’ la diplomazia la prima grande vittima di questo inaspettato precipitare degli eventi? Sì, se è bastato per metterla in crisi che Vladimir Putin si convincesse come il Kaiser nel 1914, che l’intero concerto delle nazioni europee trami contro di lui: allora per impedire l’affermazione della potenza tedesca, oggi perché la Russia riacquisisca l’impero perduto.
L’ostinazione di Putin ha colto impreparato l’Occidente sotto tutti i punti di vista. Secondo Fride, importante think tank europeo, nel 2012 per la prima volta i Paesi della Ue avevano investito per la difesa meno degli asiatici. Di questo ho già scritto nel post “Armata o neutrale? Come salvare la faccia dell’Europa” di qualche settimana fa. La ragione principale della reticenza del vecchio continente non è la crisi economica, secondo Fride, ma un “autocompiacimento e un fraintendimento dell’approccio all’uso della forza militare”.
Il problema non è pensare alla guerra ma all’uso dissuasivo della difesa: almeno fino a quando il mondo non sarà migliore. In questa categoria culturale possiamo annoverare il dibattito italiano sugli F35: la discussione non era se fossero velivoli necessari ma fra chi li voleva senza essere chiaro sul perché, e chi non li voleva affatto, a prescindere. Nel pieno della polemica dei mesi passati, sarebbe stato prosaico ricordare che gli asiatici spendono sempre di più per la difesa: la Cina ha appena annunciato un aumento del 12% delle spese militari. E che la Russia ha approntato un piano di riarmo da 750 miliardi di dollari: 600 nuovi aerei, 100 navi, mille elicotteri in meno di un decennio. Oggi parlarne non è così banale.
Sembrava una problematica irrilevante anche la creazione di una difesa e una politica estera comune europea. Putin ci ha d’improvviso dimostrato che è un’urgenza. Se i ministri degli Esteri Ue non si erano incontrati a Bruxelles già la domenica dopo l’inizio della russificazione della Crimea, non era perché volevano santificare la festa. Peggio: non erano d’accordo tra francesi e inglesi che volevano bloccare il G8 di Sochi, come strumento di pressione sulla Russia, e i tedeschi che volevano mantenerlo, come canale negoziale.
Come sempre la divisione era determinata dal volume di affari che ogni Paese fa con la Russia. Dopo aver tentennato tra un fronte e l’altro, secondo tradizione storica, sulla base del suo import-export l’Italia ha scelto la versione tedesca, più cauta.
Il senso di smarrimento europeo è stato amplificato da Putin e la tenuta dell’alleanza transatlantica è stata presa a cannonate metaforiche dai suoi comportamenti. Anziché dare l’idea di un fronte comune, sembra quasi che l’americano John Kerry e l’europea Lady Ashton siano impegnati in negoziati concorrenti.
Fra qualche mese, a luglio, celebreremo i 100 anni dall’inizio della più inutile delle nostre guerre, verso la quale gli europei camminarono come sonnambuli. (“I Sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra” è il titolo di un eccellente saggio di Christopher Clark, pubblicato da Laterza, che vi consiglio di leggere). E anche oggi, nonostante quello che è poi accaduto nel secolo successivo, di nuovo possiamo sentire un’insopportabile puzza di 1914. Manca solo un regicidio a Sarajevo.