Quasi ci siamo, diceva con grande ottimismo alla fine dell’anno scorso Rajiv Shah, il giovane Administrator di Usaid, l’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale. La povertà estrema sta per essere sradicata: “Oggi stiamo per raggiungere qualcosa che fino a poco tempo fa sembrava inimmaginabile: un mondo senza povertà assoluta”.
Sahah si riferiva a quel segmento di umanità che vive con meno di 1,25 dollari al giorno. Oggi sono “solo” un miliardo e 200 milioni gli esseri umani in questa categoria, il 17% della popolazione globale. Ma nel 1981, allargando lo spettro da 2 dollari al giorno a niente, secondo l’unità di misura della Banca Mondiale, erano il 58%.
Anche con queste premesse, tuttavia, sarà difficile raggiungere quel mondo così bello senza morti di fame e bambini senza vaccinazioni. Millennium Goal, Onu, Banca Mondiale, donatori ricchi e famosi e altri, avevano fissato la data per il 2030. Ci sarà qualche ritardo. La crisi finanziaria dell’Occidente e il rallentamento dei Paesi in via di sviluppo non possono che lasciare conseguenze. Secondo Kaushik Basu, chief economisti di World Bank, le minacce sono principalmente tre: “il rallentamento dell’economia cinese, nuove tecnologie come robot e stampanti 3D, e un mondo nel quale i salari rappresentano la quota calante del Prodotto interno lordo”.
Ai più la condizione del reddito quotidiano sembrerà poco attinente con lo stato della democrazia mondiale, come indicato dal titolo di questo post. In realtà mangiare e una vita economica dignitosa sono il primo obiettivo fondamentale dei diritti umani e il passo decisivo perché si avanzi verso la democrazia politica. Me lo facevano sempre notare i miei interlocutori ogni volta che andavo in visita in Cina e chiedevo quando il Partito si sarebbe aperto anche alla democrazia rappresentativa. Erano molto interessati a rispondere così ma non penso avessero torto.
Il pericolo per la povertà nel mondo non è tanto il ritardo che occorrerà per sradicarla, quanto la possibilità che le percentuali tornino a crescere. Lo spiega un’analisi del Financial Times, pubblicata qualche giorno fa, che prende in esame i dati raccolti in 30 anni dalla World Bank in 122 Paesi. Mai nel mondo il benessere è aumentato come nei 25 anni successivi alla fine della Guerra fredda. Si può correttamente discutere sull’ineguaglianza della distribuzione di questa crescita, ma il rapido decollo cinese e in altri Paesi in via di sviluppo, ha reso il mondo più equo.
Il segmento di umanità che è cresciuto percentualmente di più è composto da coloro che guadagnano fra 2 e 10 dollari al giorno: la nuova classe media dei Paesi in via di sviluppo. A parte gli squali di Wall Street, le multinazionali e gli oligarchi russi, è la classe sociale che più ha beneficiato dalla globalizzazione. Dal 2003 al 2009 in America Latina è cresciuta da 103 a 152 milioni: per la prima volta nella storia del continente sono diventati più numerosi dei poveri. Come spiega Homi Kharas, economista alla Brookings Institution, la maggioranza relativa dell’umanità vive ormai in questo gruppo sociale.
Ma è una categoria economica estremamente fragile di fronte alle crisi regionali e globali, al mutare del clima e dei mezzi di produzione. I redditi nell’India rurale dipendono pesantemente dalla qualità del monsone stagionale. Ogni anno in Indonesia il 55% dei poveri apparteneva l’anno precedente alla fragile classe media sopra i 2 dollari al giorno. Solo chi raggiunge e supera i 10 dollari entra molto più stabilmente a far parte di una vera middle class.
Il mondo dunque è ancora lontano dall’essere equo. C’è molto lavoro da fare. Ma non è più così schifoso e ingiusto come a molti piace pensare.