Nessuno, probabilmente nemmeno chi lo ha raggiunto, crede che il nuovo accordo di riconciliazione palestinese durerà più di qualche settimana. I protagonisti sono sempre gli stessi; la stessa, quella dell’esilio, è la generazione al potere; uguali le condizioni che impediscono ai palestinesi di avere uno Stato 66 anni dopo la Nakba e a più di cento dall’inizio del confronto fra ebrei e arabi in Palestina.
Il frazionismo e lo scontro armato fratricida sono elementi costanti della lotta palestinese e alcune delle spiegazioni se dopo così tanto tempo non si sono concretizzate le aspirazioni nazionali di un intero popolo. C’è qualcosa di sbagliato se lo Stato palestinese non esiste, ma di Palestine ce ne sono due, come la Corea del Nord e la Corea del Sud.
Ma quello che mi ha colpito, immediatamente dopo l’annuncio della riconciliazione tra Fatah, il partito storico al potere in Cisgiordania, e Hamas, i fratelli musulmani palestinesi che controllano la striscia di Gaza, non è quanto difficile sia applicare politicamente questo accordo. Già due volte in questi ultimi anni i negoziatori ne avevano firmato uno, sempre buttato al macero appena la diplomazia lasciava il posto ai fatti.
No, mi ha colpito la reazione immediata, da cane di Pavlov, di Israele e Stati Uniti. Per i primi l’Autorità palestinese di Abu Mazen, cioè Fatah, cioè Cisgiordania, doveva scegliere se fare la pace con i terroristi di Hamas o con Israele. Impossibili entrambe le cose. Gli americani hanno annunciato di essere “delusi”. Soddisfatti, naturalmente con molta cautela, gli europei, i cinesi e il resto del mondo che ha espresso un commento. Loro no.
Bisogna ricordare che quelle di Stati Uniti e Israele sono le stesse diplomazie che esortano i palestinesi a rappresentare una sola ipotesi nazionale. Decine di volte mi sono sentito spiegare al ministero degli Esteri di Gerusalemme e al dipartimento di Stato a Washington che una pace con una Palestina mentre ce n’è un’altra che vuole la lotta armata, non è una pace credibile. Poi i palestinesi cercano di riconciliarsi per fare una sola Palestina, ed ecco che – ugualmente – la pace è impossibile.
Non credo che l’accordo firmato l’altro giorno a Gaza porterà a qualcosa di concreto. Ma se fosse? Perché non lasciare all’Autorità palestinese la possibilità di provarci? Hamas è anche un’organizzazione terroristica: questa è la ragione del rifiuto di riconoscere il movimento sotto qualsiasi forma. Sfortunatamente Hamas esiste, governa miseramente una gabbia chiusa fra il mare, un Egitto che ora gli è ostile, e Israele. Dopo tanti lanci di razzi su Israele, rapimenti, incursioni, tunnel scavati, raid aerei, incursioni e invasioni militari, si potrebbe provare con qualcosa di diverso: lasciare per esempio un tempo non illimitato ad Abu Mazen per negoziare con Hamas, spingere il movimento islamico verso una posizione più aperta alla trattativa con Israele. Probabilmente è illusorio, ma sarebbe sensato provarci. Anche perché nel frattempo a Gaza Hamas è diventato il più moderato dei partiti e delle milizie che si agitano nella striscia, debordando nel Sinai con operazioni terroristiche contro i militari egiziani.
Oggi Hamas è debole: non ha più il pieno controllo di Gaza, i fratelli musulmani egiziani sono stati spazzati via; al regime di Damasco e ad Hezbollah libanese armi e denaro servono per la loro guerra in Siria. Potrebbe essere il momento buono per una svolta politica e comportamentale di Hamas.
Ieri un amico israeliano mi diceva, di nuovo, che non si può fare una trattativa di pace con i palestinesi riunificati, se nel loro governo entrano quelli che si rifiutano di riconoscere l’esistenza di Israele. E’ comprensibile. Anzi: è un fatto. Ma all’amico ho ricordato ciò che Tzipi Livni, la ministra negoziatrice israeliana, ha detto qualche giorno fa, commentando lo stallo delle trattative promosse dagli americani: “E’ impossibile raggiungere un accordo quando nel mio governo ci sono ministri che non vogliono uno Stato palestinese”.
Se dunque i palestinesi trattano con un esecutivo nella cui maggioranza ci sono coloni anti-arabi, nazional-religiosi e sostenitori della Grande Israele, perché gli israeliani non dovrebbero fare lo stesso con un governo palestinese nel quale ci fosse anche Hamas?
So di parlare del sesso degli angeli. Nel momento stesso in cui lo espongo, capisco che il mio ragionamento fa acqua da tutte le parti. Naftali Bennet, i coloni e Hamas non sono il problema ma la conseguenza del problema. Esistono perché ci sono due popoli che in assenza di leaders coraggiosi, non vogliono la pace fra loro. O meglio: la pace la vogliono ma quella senza sacrifici che permetta all’uno di vincere sull’altro. Una pace così non esiste.