Ai senatori convocati per confermare la sua nomina, il nuovo segretario di Stato Marco Rubio aveva affermato che l’ordine globale del dopoguerra è ormai “obsoleto”. Quasi ineccepibile: 80 anni di gestione del mondo – si dovrebbero celebrare giusto quest’anno – sono molti. E’ naturale che la convivenza internazionale meriti una nuova architettura politica.
Il problema è quale ordine costruire. Fino ad ora c’è solo un tentativo confuso ma sistematico, di distruzione dei valori di quello vecchio. In meno di un mese l’amministrazione Trump ha realizzato più un blitzkrieg che il programma di un multipolarismo positivo. L’acquisto della Groenlandia, l’annessione di Canada e Panama, la conquista di Gaza, dazi, ordini esecutivi, deportazioni, assalto alle fondamenta della democrazia americana.
Con una solerzia mancata ai predecessori, il presidente ha garantito che imporrà la pace in Ucraina e a Gaza. Questo sì, sarebbe un inizio verso una nuova struttura di convivenza globale. Ma se finisci le guerre facendo vincere Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu, ne apri solo di nuove. O prolunghi quelle che pretendevi di chiudere.
La lezione sulla democrazia che ha preteso di dare J. D. Vance alla conferenza di Monaco, non può essere un punto di partenza perché guarda al passato. Il vicepresidente americano ha ignorato la tragica storia europea del XX secolo: volutamente, perché non può non sapere che nessuno quanto gli Stati Uniti ci salvarono da Hitler e poi da Stalin.
Nell’audizione al Congresso, Marco Rubio non aveva solo definito “obsoleto” il sistema democratico nel quale viviamo. Aveva aggiunto che “ora è un’arma contro di noi”. Prima di lui aveva usato lo stesso vittimismo Donald Trump: “Da oggi in poi”, aveva detto nel discorso inaugurale, “gli Stati Uniti saranno una nazione libera, indipendente e sovrana”. Non risulta che dal 4 di luglio 1776, l’Independence Day, qualcuno avesse mai dubitato che lo fosse. Nemmeno Hitler o Stalin. E’ la nuova versione della storia che l’amministrazione Trump sta cercando d’imporre, per affermare un’oscura visione del mondo: la più pericolosa delle sue molte verità alternative.
Nel dopoguerra, incomprensibilmente trasformato in un decadente alto medio evo dell’America, gli Stati Uniti hanno commesso errori: il Vietnam, l’invasione dell’Iraq, l’allargamento a Est della Nato, la crisi finanziaria del 2007/08, la presunzione che il “Washington Consensus” fosse il Vangelo del libero mercato e della democrazia. Se, come sostiene il Nobel indo-americano Abhijit Banerjee, all’inizio della presidenza Reagan, 1981, “i lavoratori erano pagati un sessantesimo del loro capo e ora 60.000 volte meno”, qualcosa in America non ha funzionato.
Tuttavia è quasi sempre stata la potenza stabilizzatrice del sistema globale che lei stessa aveva creato, guadagnando in forza economica, potere diplomatico e militare. Le potenze revisioniste erano l’Unione Sovietica/Russia e la Cina. Quest’ultima solo a partire da un quindicennio fa, quando la crisi finanziaria del 2007 le fece capire che dagli Stati Uniti non aveva più nulla da imparare. “L’Est sta crescendo e l’Ovest sta declinando”, sosteneva Xi Jinping.
Per quanto sia dato di capire dalle dichiarazioni e dai compulsivi ordini esecutivi, il nuovo assetto che ha in mente Donald Trump darà ragione al presidente cinese. Un impero americano in Occidente, fondato solo sui suoi interessi, a scapito di vassalli chiamati alleati; uno euro-asiatico russo e uno cinese nell’indo-pacifico. Con incursioni americane negli altri due imperi. Ma solo per difendere interessi economici specifici, non valori umani tipo l’indipendenza ucraina o l’autonomia di Taiwan.
Come nella fisica, anche nella geopolitica esiste un principio: in questo mondo ostinatamente hobbesiano, uno spazio lasciato vuoto da qualcuno, più prima che poi viene sempre occupato da qualcun altro. Sta già accadendo. Nell’emisfero occidentale Donald Trump imporrà al governo di Panama di togliere ai cinesi di Hutchinson Holdings il controllo dei porti ai due estremi del canale. Ma in Asia molti paesi alleati stanno incominciando a prendere le misure dei mutamenti a Washington e a guardare verso Pechino.
Non si può dire che un mondo tri-polare così sia migliore del vecchio sistema post-bellico che l’America aveva creato e ora ripudia. “Quello in cui saremo lasciati”, è l’opinione della storica americana Jennifer Mittlestadt, sul New York Times, “è un periodo tumultuoso per le relazioni internazionali, meno centralizzato e meno governato da principi condivisi e modelli operativi funzionanti dalla fine della seconda guerra mondiale fino a poco fa”. Difficile essere più ottimisti.