“Sono convinto”, diceva Riad al-Malki, “che Donald Trump risolverà la nostra causa”. All’appuntamento annuale dei Dialoghi Mediterranei, organizzati a Roma dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale e dalla Farnesina, il ministro degli Esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah, sembrava convinto della sua affermazione.
Era la fine del novembre 2024. Poche settimane prima, dopo le elezioni americane Israele era tappezzato di manifesti che esaltavano la vittoria del candidato repubblicano: “il migliore amico d’Israele”, dicevano. Benjamin Netanyahu rilasciava le stesse dichiarazioni ottimistiche di al-Malki. Ma a cause invertite. Con Trump, diceva il premier israeliano, l’impresa sionista avrebbe raggiunto i suoi scopi: un solo stato ebraico dal Mediterraneo al Giordano. Al-Malki sosteneva che con lo stesso presidente americano una Palestina indipendente sarebbe stata questione di tempo.
Israeliani e palestinesi non sono i soli a credere che Donald Trump sarà dalla loro parte. Non esiste dittatore, presidente o primo ministro democratico che non ne sia convinto o finga di esserlo. Il prossimo presidente americano darà giustizia a chi non l’ha avuta e punirà coloro che si comportano iniquamente. L’elenco delle guerre e delle crisi che Trump avrebbe la facoltà di risolvere, è lungo quanto la lista degli stati nel mondo che abbiano una qualsiasi visibilità economica, commerciale o geopolitica.
Negli Stati Uniti il paio di mesi che passano dall’elezione presidenziale di novembre all’”inauguration day” di gennaio, è un periodo di calma. Il presidente è un’“anatra zoppa”: governa ma non ha più l’autorità per prendere decisioni importanti. Quello entrante quasi scompare per nominare la squadra che lo aiuterà a governare il paese nel quadriennio successivo. E’ stato quasi sempre così perché una dimostrazione importante della stabilità di un sistema democratico è la continuità della sua politica estera: democratico o repubblicano, l’interesse nazionale è il medesimo.
Non questa volta, con un presidente che si definisce “radical disrupter”, un sovvertitore radicale. Trump è come uno di quei re taumatughi medievali descritti dal grande storico annalista Marc Bloch, che guarivano dalle scrofole con la semplice imposizione delle mani: “Il re ti tocca, Dio ti guarisce”. La guerra in Ucraina finirà in un giorno, promette Trump. Lui scatenerà l’inferno se non saranno liberati gli ostaggi israeliani di Gaza: difficile possa essere peggiore di quello che da 15 mesi Israele sta già infliggendo alla striscia. Se gli alleati non pagheranno la loro quota di spese militari, Trump lascerà la Nato; e chi non lo farà sarà dato in pasto a Vladimir Putin, come Taiwan alla Cina. Chiunque possieda un surplus nell’interscambio con gli Stati Uniti, lo pagherà con una guerra commerciale da XIX secolo.
“La vecchia America non torna e il resto del mondo nemmeno se lo aspetta”, scrive il democratico Ben Rhodes, che fu lo speechwriter di Barack Obama. L’Europa, la Russia, la Cina e il Global South vivono in uno stato d’ipnosi, sezionando ogni dichiarazione di Trump: anche la più inverosimile, sapendo che l’America non sarà più la stessa e sperando di finire dalla parte giusta della storia. Per il quotidiano israeliano Ha’aretz, Trump è come il sorriso della Gioconda: “Chiunque può leggervi quello che vuole”.
Qualsiasi valutazione su ciò che accadrà nel 2025, quali crisi politiche si trasformeranno in guerre e quali conflitti in pace, è del tutto ipotetica. La guerra di Gaza potrà avere pause di breve durata per uno scambio di prigionieri. Tuttavia, diversamente dagli interventi israeliani in Libano e Siria, lo scontro con i palestinesi è una storia diversa. Il mondo, anche gli alleati più stretti dello stato ebraico, chiede una formula diplomatica per chiudere il conflitto centenario: riaprire un negoziato per lo stato palestinese. Il governo di estrema destra israeliano – ora probabilmente anche il resto del paese – lo rifiuta.
I decenni della Guerra Fredda avevano una certa semplicità geopolitica: il mondo era nettamente diviso fra comunismo e liberal-democrazie, fra economia del piano e libero mercato. In Europa non si combattevano guerre, sebbene le nostre differenze fra Est e Ovest diventavano conflitti guerreggiati in Africa, Medio ed Estremo Oriente; o rivoluzioni e golpe in America Latina.
Oggi il mondo è più complicato: le grandi potenze sono tre e non più due. Ma soprattutto gli altri paesi, potenze minori dalle ambizioni regionali, non sono più legati alle alleanze tradizionali. Ognuno pensa al proprio interesse: l’India compra petrolio dalla Russia, si allea agli Stati Uniti per contenere l’espansionismo cinese alla frontiera himalayana. Ma Pechino resta il suo principale partner commerciale. Qualche tempo fa il Sole 24 Ore aveva chiesto a Subrahmanyam Jaishankar, ministro degli Esteri indiano, di dare una definizione del Global South: “Una confraternita nella quale nessuno pretende di governare sugli altri”, aveva risposto.
Trasferita questa rivoluzione geopolitica in Ucraina e in Medio Oriente, il risultato è che anche di fronte a un’aggressione russa così evidente, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite la gran parte dei paesi un tempo chiamati “in via di sviluppo” si siano astenuti dalla condanna a Vladimir Putin, pur opponendosi ai sui metodi. Non con l’Occidente né con il neo-imperialismo russo.
Dopo aver combattuto le guerre degli altri, il Sud Globale non aveva intenzione di partecipare anche alle nostre. A fatica qualcuno aveva nascosto una certa soddisfazione nel constatare che una guerra fosse tornata in Europa. Vladimir Putin ha potuto godere di un certo respiro, soprattutto morale, anche se non era questo l’obiettivo della parte del mondo che si era astenuto.
Anche in Medio Oriente la rivoluzione geopolitica sta avendo conseguenze interessanti. In un mondo così complicato nel quale è difficile trovare un denominatore comune, tutti sono però d’accordo che il conflitto fra israeliani e palestinesi, origine scatenante di quasi tutte le guerre della regione, deve essere risolto con un negoziato che porti alla soluzione dei due stati.
Ma oggi Israele non ha intenzione di arrivare a questo. Ed è difficile trovare palestinesi che credano a un’eventualità simile dopo 15 mesi di distruzione israeliana di Gaza e 45mila morti, la gran parte dei quali civili, donne e bambini. Una tregua né lo scambio dei prigionieri modificherà questa realtà che giorno dopo giorno sta isolando Israele dalla comunità internazionale. Solo una diversa maggioranza politica e un cambio di governo a Gerusalemme, potrebbero offrire qualche speranza.
Il conflitto è di difficile soluzione: non sono a confronto solo due nazionalismi. Lo scontro è anche etnico e sempre più religioso. Ma soprattutto è complicato dallo squilibrio tra i nemici. La parte che dovrebbe fare le concessioni necessarie, la restituzione dei territori occupati, è Israele. Il quale è enormemente più forte: dal punto di vista militare, diplomatico, economico.
Il conflitto russo-ucraino è più semplice. E’ solo fra due nazionalismi e sul campo gli avversari si equivalgono: a Volodymyr Zelensky è chiaro che non libererà la penisola di Crimea né una buona parte delle province orientali. Vladimir Putin sa invece che non arriverà a Kyiv, almeno militarmente. La sua probabile strategia è che un accordo di pace riconosca la realtà del campo di battaglia ma neghi all’Ucraina di entrare nella Nato e nella Ue. Questo permetterebbe a Putin di mestare sul quadro politico interno dell’Ucraina e tornare al 2014: quando il paese era governato da burattini ucraini di Mosca.
Data la nota amicizia fra il dittatore russo e il presidente americano, è probabile che nella peggiore delle ipotesi Putin uscirà comunque bene dal conflitto, e nella migliore da vincitore. Ma Trump ha già ammonito il russo di non avere ambizioni eccessive sull’Ucraina: il re taumaturgo ha in mente la sua pace che nessuno ancora conosce.
Anche Netanyahu, convinto di essere dalla parte vincente della storia, potrebbe avere qualche delusione. A Donald Trump interessa poco del conflitto israelo-palestinese: è troppo antico per suscitare il suo interesse. Per lui il Medio Oriente sono gli affari che intende realizzare con l’Arabia Saudita. E molto più del Medio Oriente conta l’Asia, cioè la Cina. Solo l’imprevedibilità di Trump ci dirà se con Pechino sarà confronto o dialogo. L’uno o l’altro, influenzerà le guerre o la pace del mondo.
L’articolo è stato pubblicato nell’inserto “Trend 2025”, uscito con Il Sole 24 Ore del 31/12/2024.