Almeno una quindicina fra università, giornali e istituzioni culturali stilano e rivedono di tanto in tanto una classifica dei 45 presidenti degli Stati Uniti. Abe Lincoln, F.D. Roosevelt e George Washington sono universalmente i primi tre. Con la stessa concordia di giudizio, per tutti Jimmy Carter è stato un Commander in chief da metà classifica. Per qualcuno è nella storia degli Stati Uniti solo per essere stato all’età di 100 anni il più longevo degli ex presidenti.
Il giudizio è troppo severo. Nel 1977 Carter finalmente consegnò il Canale di Panama al suo legittimo proprietario, il governo locale, chiudendo simbolicamente l’epoca del colonialismo in America Latina (il passaggio di consegne sarebbe avvenuto nel 1999); nel ’79 con l’accordo Salt II proseguì con l’Unione Sovietica l’epoca del controllo e disarmo nucleare; nello stesso anno fu lui, con determinazione e pazienza, a costruire a Camp David la pace fra Egitto e Israele.
Tuttavia rimane più lunga la lista degli errori, dei limiti caratteriali e della sfortuna. L’opposto di quest’ultima – la fortuna – è fondamentale per il successo di un leader. Carter non ne ha avuta molta.
James Earl Carter Jr. era nato il primo ottobre 1924 a Plains, Georgia. Piccolo investitore locale, suo padre James Earl Carter Sr. Aveva fatto una discreta fortuna coltivando noccioline. James Junior, chiamato affettuosamente Jimmy, pensava che quello sarebbe stato anche il suo destino. Infatti lo fu, in parte: la produzione di arachidi sarebbe stata la costante della sua vita. In mezzo però ci mise una breve ma intensa carriera da ufficiale di Marina: sommergibilista nei primi anni della Guerra Fredda. Poi, spinto come compasso morale da una fede incrollabile per la chiesa evangelica, si avvicinò alla politica.
Gli stati del Sud, ultra-conservatori, allora votavano democratico. Poi nel 1964 Lyndon Johnson presentò all’America “The Great Society”, il pacchetto di riforme sociali e anti-segregazioniste che lo avrebbero catapultato nella storia se la sua presidenza non fosse stata definita dal disastro del Vietnam. “Faremo le riforme ma il partito perderà per sempre il Sud”, aveva predetto il texano Johnson. Infatti da allora gli stati al di sotto della linea Mason-Dixon che divideva l’America Yankee da quella Dixie, sarebbero stati un serbatoio di voti del conservatorismo repubblicano. Da politico, il giovane Carter incarnò la doppia personalità di molti democratici del Sud: cristiano e conservatore per natura, progressista per scelta: “Sono convinto che Gesù Cristo approverebbe i matrimoni gay ma questa è solo un’opinione personale”, avrebbe detto il senatore Jimmy Carter, sostenitore dei diritti civili ma contrario alla legalizzazione dell’aborto.
Nel Senato della Georgia dal 1963 al ’67, governatore dal 1971 al ’75. Poi, nel vuoto di leadership dell’America uscita dalla guerra in Vietnam e dallo scandalo Watergate che aveva costretto Richard Nixon al ritiro, Jimmy Carter scalò il partito democratico fino alla nomination presidenziale del 1976. Il carattere introverso e riflessivo non ne faceva il candidato ideale per un confronto elettorale ormai ampiamente mediatico. Ma il repubblicano Gerald Ford, ereditato dal fallimento della presidenza Nixon, era molto più anonimo di lui.
Nel tentativo di segnare l’inizio di una nuova era, due giorni dopo essere entrato alla Casa Bianca, Carter perdonò le migliaia di renitenti fuggiti in Canada per evitare il Vietnam. Creò i dipartimenti dell’Energia e dell’Educazione che non esistevano. In politica interna il suo obiettivo erano le riforme sociali per i più svantaggiati; in politica estera diplomazia e pace. “Noi e i sovietici abbiamo 30mila testate nucleari ciascuno: abbiamo l’obbligo di raggiungere la pace”.
Ma quando, nel 1979, i sovietici invasero l’Afghanistan anche Carter fu costretto ad abbandonare la distensione, imporre l’embargo del grano americano e il boicottaggio delle imminenti Olimpiadi di Mosca. Il suo più importante successo in politica estera fu la pace di Camp David fra egiziani e israeliani. Fino all’ultimo l’ottusità ideologica del premier Menachem Begin rischiò di far saltare l’accordo. La sua idea di una Grande Israele gli impediva di capire quanto strategicamente importante fosse un accordo con l’unico paese arabo capace di sostenere una guerra contro lo stato ebraico. “E’ uno psicotico”, confidò Carter alla moglie Rosalynn.
Fu lui, insieme agli israeliani Moshe Dayan e Ezer Weizman, a convincere Begin ad accettare la pace solo alla dodicesima ora. A causa della propaganda del Likud, il partito nazionalista di Begin, da allora Carter divenne una personalità invisa agli israeliani. “Per quanto ne so”, cercò di dire alcuni anni più tardi Weizman, diventato capo dello stato a Gerusalemme, “nessun presidente americano ha mai aiutato Israele quanto Jimmy Carter”.
Quando Carter incominciò a organizzarsi per la rielezione del 1980, accaddero nell’ordine: la crisi degli ostaggi a Teheran, quella petrolifera, l’incidente nucleare alla centrale di Three Miles Island, l’invasione dell’Afghanistan e il gelo con l’Urss.
Nel novembre 1979 gli studenti iraniani avevano preso 52 ostaggi all’ambasciata americana di Teheran. Dopo aver tentato per sei mesi la strada della diplomazia, Carter impose sanzioni economiche. Infine, con riluttanza, ordinò di liberare i sequestrati. L’operazione Eagle Claw, artiglio d’aquila, fallì prima d’incominciare nel deserto iraniano dove due aerei americani si scontrarono a terra. Nel gennaio 1981, pochi giorni dopo l’inauguration day di Ronald Reagan, gli ostaggi furono pacificamente liberati.
La sfortuna e la convinzione generale che nella crisi economica (inflazione al 13,5%) e nel nuovo picco di Guerra Fredda servisse una personalità più fredda e ottimista sull’immancabile vittoria, costarono a Carter la rielezione. La sconfitta fu pesante: era da Herbert Hoover, 1932, che un presidente in carica non veniva rieletto, e dal 1952 che i democratici non perdevano il Senato.
Nel 1982 l’ex presidente fondò il Carter Center per promuovere i diritti umani perché “l’America non ha inventato i diritti umani: sono piuttosto i diritti umani ad aver inventato l’America”. Il Nobel per la pace del 2002 fu un riconoscimento al suo lavoro e un voto contro George Bush che aveva iniziato i preparativi per invadere l’Iraq.
“Carter è universalmente considerato un uomo migliore di quanto sia stato da presidente”, fu il commento del Guardian, uno dei giornali che stilano la classifica presidenziale. Nel 1980 quando aveva perso la rielezione, il suo consenso era al 31%. Trent’anni più tardi, quando fu fatto un nuovo sondaggio, il 64% degli americani disse che in fondo Jimmy Carter era stato un buon presidente.