Settantasei anni d’immutato rancore

Nahlal è sorta al posto di Mahlul, il kibbutz Givat al posto di Jibta, quello di Sarid è dove prima c’era Huneifis. E Kfar Yehushu’a sorge sulle rovine di Tal al-Shumman”, spiegava Moshe Dayan agli studenti del Technion di Haifa, quasi 50 anni fa. “Non c’è un solo luogo costruito in questo paese che non abbia avuto una popolazione araba”. Nel 1947 esistevano 418 villaggi palestinesi; tre anni più tardi sarebbero scomparsi dalle carte geografiche, sostituiti da 161 insediamenti ebraici.

La sintesi di tutto questo sono due ricorrenze: l’Independence Day celebrato martedì dagli israeliani con immutabile orgoglio; e la Nakba, la catastrofe, ricordata mercoledì dai palestinesi con inestinguibile dolore.

La narrativa israeliana aveva stabilito che furono i palestinesi ad andarsene. Ma nel 1989, con una monumentale ricerca negli archivi, lo storico israeliano Benny Morris rivelò la realtà. La gran parte dei palestinesi fu scacciata o minacciata: 13mila civili uccisi, 750mila profughi su una popolazione di un milione, 418 villaggi cancellati.

Il punto di partenza fu la risoluzione Onu 181 del 29 novembre 1947, il piano di spartizione della Palestina che gli arabi respinsero e gli ebrei accettarono. Non ha importanza quali ne fossero le ragioni, è il no che rimane agli atti della Storia e che che gli israeliani hanno reso inappellabile. “I palestinesi non perdono occasione di perdere occasioni”, avrebbe detto vent’anni dopo Abba Eban, il ministro degli esteri di Golda Meir.

In realtà le origini della Nakba incominciano molto prima, alla fine del XIX secolo, quando alcuni ebrei dell’Est d’Europa decisero che il popolo ebraico dovesse tornare nella Terra Promessa. In Palestina “saremo una parte del muro europeo contro l’Asia”, scriveva Theodor Herzl, il padre del movimento. “Serviremo come avamposto della civiltà contro la barbarie”. E’ comprensibile che gli arabi considerino il sionismo come un’espressione del colonialismo europeo.

Il sionismo rimase una proposta minoritaria fra le comunità ebraiche fino al nazismo e all’Olocausto: quando la Palestina divenne l’unico rifugio dall’antisemitismo europeo.

Nakba in ebraico si traduce con la parola Shoah. Le due catastrofi non sono paragonabili ma per ogni popolo la propria tragedia è sempre la più grande.

I responsabili della Nakba palestinese furono gli israeliani ma i colpevoli della Shoah non furono i palestinesi. Per migliaia di anni il mondo arabo – la “barbarie” secondo Herzl – aveva quasi sempre integrato le minoranze ebraiche. Dal Marocco allo stretto di Hormuz non sono mai esistiti ghetti.

Il sionismo non ha solo trasformato i palestinesi in rifugiati, ha trasformato gli ebrei d’Oriente in stranieri nella loro terra”, scrive Avi Shlaim, uno dei più importanti storici israeliani. “Il comune passato di ebrei e musulmani fu soppiantato dalla nuova realtà del conflitto arabo israeliano”.

Furono 850 mila gli “ebrei arabi” diventati profughi a causa del sionismo e del nazionalismo arabo: una seconda Nakba, per quanto ebraica. In Iraq, dove Shlaim era nato, gli ebrei vivevano dal 586 A.C. Quando dovettero fuggire, in Israele diventarono cittadini di seconda categoria rispetto agli aschenaziti europei. Erano “Orde selvagge”, secondo David Ben Gurion. “Bisogna instillare in loro uno spirito occidentale e non lasciare che siano loro a trascinare noi in un innaturale Oriente”, diceva ancora Abba Eban.

Questa rapida divagazione storica aiuta a capire quanto profonde e inconciliabili siano le radici delle due ricorrenze. Forse a comprendere perché da 76 anni non sia cambiato niente. C’è qualcosa di patologico se negli stessi giorni e sulla stessa terra contesa, gli israeliani continuino a celebrare un successo e i palestinesi una tragedia. Se dopo 76 anni di guerre, l’ultima ancora in corso, gli israeliani non abbiano capito che non ci sarà pace senza i palestinesi. E che dopo tutto questo tempo anche molti palestinesi credano che “dal mare al fiume” non debba esistere uno stato ebraico: il 7 ottobre Yahya Sinwar di Hamas, credeva di andare a liberare Gerusalemme. “Non esiste un popolo chiamato palestinese”, diceva invece Golda Meir: cinquant’anni più tardi ne è ancora convinto Bibi Netanyahu. Nonostante le evidenze contrarie da 76 anni.

 

 

 

 

  • carl |

    “Dal Marocco allo stretto di Hormudz (ivi compreso l’Iran dunque) non sono mai esistiti ghetti”. Infatti, il concetto di ghetto è stato ideato in Europa, favorito tuttavia dalla propensione a fare comunità anche da parte degli ebrei della “diaspora”. In ogni caso tra i bipedi umani basta poco per creare differenziazione, separazione, diffidenza, antagonismo, apartheid, ecc. e dunque anche tra ebrei arabi/sefarditi e ebrei askenazi. E così pure tra islamici sunniti e sciiti, tra catto-romani, calvinisti e luterani, tra afro ed hispano-americani e sedicenti nativi americani… ecc.
    Forse non tutti gli habitués del blog capiscono l’espressione “dal mare al fiume”, che significa dal Mar Mediterraneo all’Eufrate.
    Infine un accenno al fatto che vi sono anche gli ebrei haredin (cioè timorati di Dio) che sono convinti che non essendoci stato un simil Mosé, la rifondazione di uno Stato ebraico non sarebbe “opus Dei” e, dunque, destinata a finire malamente…

  • FERDINANDO PELLEGRINI |

    Caro Ugo, sono anni purtroppo che diciamo le stesse cose inascoltate da chi dovrebbe , non fosse altro che per rispetto della verità storica. Ormai però stiamo per arrivare alla conclusione tragica della realtà. Non so se la storia futura guarderà con occhi critici ciò che sta accadendo, ma i libri di storia li hanno sempre scritti i vincitori ,quindi dubito.

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