Al Fatah, il partito che guida l’Autorità autonoma di Ramallah, “è da trent’anni il legittimo rappresentante del popolo palestinese e non è vero che incoraggia il terrorismo” come invece afferma Bibi Netanyahu. “Dobbiamo imparare a vivere accanto a uno stato palestinese. Ma prima dobbiamo sostituire il nostro disastroso governo, il vero responsabile di ciò che stiamo vivendo”.
Non è poco se lo dice l’ex capo dello Shin Bet, lo Shabak: sono i servizi di sicurezza interni resi famosi da Fauda, la serie tv dal successo internazionale, il cui subliminale messaggio era che i palestinesi, adulti e bambini, uomini e donne, sono tutti potenziali terroristi.
E’ quello che nel mondo reale credono moltissimi israeliani. Ma non Nadav Argaman, per cinque anni direttore dello Shin Bet dopo esserne stato il responsabile delle operazioni sul campo. Non è stato il solo a pensare positivamente all’annuale conferenza dell’Istituto di studi sulla sicurezza, l’INSS, all’Eretz Israel Museum di Tel Aviv. Prima e dopo di lui avevano parlato ex responsabili del Mossad, capi di stato maggiore ed ex generali. Tutti hanno dato la stessa versione dell’Israele che dovrebbe essere: libero da Netanyahu e dal suo governo di estremisti, in pace con i palestinesi, in sintonia con l’alleato americano, integrato col mondo arabo circostante.
Pochi giorni più tardi però, l’INSS ha dovuto pubblicare sul suo sito una versione contraddittoria ma più reale di ciò che oggi è Israele. Il consenso popolare per la creazione di uno stato palestinese è al 35%: mai così basso, nemmeno durante la seconda Intifada.
Importa poco che sia la soluzione dei due stati che intende costruire l’America, il primo ed essenziale alleato d’Israele. E con lei l’Europa, gli arabi moderati, russi, cinesi e quasi tutto il resto del mondo. Per mesi e mesi prima della guerra, centinaia di migliaia d’israeliani sono scesi in strada per difendere la loro democrazia, insidiata dal crescente autoritarismo del governo Netanyahu. Pochissimi di loro, tuttavia, si chiedevano cosa avesse a che fare la democrazia con l’occupazione di un altro popolo.
L’ipotesi sempre più evidente di un isolamento internazionale oggi viene spiegata dagli israeliani e da molte comunità ebraiche della Diaspora come un caso di antisemitismo globale. Il razzismo è un cancro inguaribile, è vero, e la guerra di Gaza ne è un brodo di coltura. Ma nella gran parte dei casi l’accusa di antisemitismo è usata come pretesto per evitare di darsi risposte scomode riguardo a una complicata questione politica e morale.
E’ come quando gli israeliani affrontano il bilancio dei morti di Gaza, ora oltre 33mila. “Lo dicono i terroristi di Hamas”, è la sola risposta ammessa. Anche sottraendo i miliziani uccisi in combattimento, i civili restano i due terzi dei caduti. E quante altre migliaia di vittime sono ancora sotto le macerie delle loro case? Le statistiche sono confermate da Onu, Organizzazione Mondiale della Sanità, Medici Senza Frontiere, molte altre organizzazioni internazionali serie e credibili. Oltre che dal dipartimento di Stato e dal Pentagono, a Washington.
La risoluzione per un cessate il fuoco a Gaza, per la prima volta sponsorizzata dagli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza Onu, è un precedente politico importante. Ma per l’opinione pubblica israeliana ha una scarsa rilevanza. Non solo perché qualsiasi cosa voti il sinedrio delle Nazioni Unite, la tregua entrerà in vigore solo se Israele e Hamas accettano un compromesso; e comunque sarà un cessate il fuoco a termine. Ma anche e soprattutto perché gli israeliani sono in guerra e per loro a Gaza c’è il nemico, non il popolo di affamati che crede di vedere il resto del mondo.
Se il consenso a favore di Netanyahu è ancora più basso di quello per uno stato palestinese, non è per il disastro umanitario di Gaza e l’isolamento morale nel quale lui ha portato Israele. E’ perché le forze armate che Bibi presiede si sono fatte cogliere di sorpresa dal sanguinoso attacco di Hamas, il 7 ottobre. Non è per aver iniziato una guerra a Gaza senza indicare un obiettivo politico da raggiungere (cosa fare della striscia e dei palestinesi in caso di vittoria). Ma perché si è scoperto che la “vittoria totale” promessa è un obiettivo militare elusivo.
La grande maggioranza degli israeliani vuole liberarsi del potere senza fine di Netanyahu: sommati, sono più di 16 anni. Ma non ora. Nemmeno i realisti intervenuti alla conferenza di INSS pensano come il leader democratico dei senatori Usa Chuck Schumer, che si possano fare elezioni anticipate in tempo di guerra. I conti con Bibi si faranno alla fine.
Ma quando sarà la fine del conflitto e come sarà il “day after”? Sfruttando l’incertezza nella quale vive Israele, Netanyahu continua a ignorare l’urgenza di una risposta a domande così fondamentali per il futuro del paese. Semplicemente guadagna tempo. Accusa di disfattismo coloro che danno importanza alle preoccupazioni dell’amministrazione Biden. Cerca sostegni fra i repubblicani tentando di trasformare i dubbi democratici verso Israele, in un tema divisivo della campagna presidenziale americana.
Palesemente, Bibi sta contando sull’aiuto di Donald Trump. “Netanyahu, the MAGA senator from Jerusalem”, titolava il quotidiano Ha’aretz, una delle poche voci che tentano di fare della guerra israeliana a Gaza anche una questione morale.