Quando finirà la tregua

Qatar ed Egitto hanno avuto un ruolo importante nel negoziato che ha portato allo scambio di prigionieri e a una tregua a Gaza. Ma è l’amministrazione Biden ad aver giocato la parte più decisiva: quella politica e, probabilmente, intimidatoria nei confronti d’Israele.

Sul piano morale lo stato ebraico stava già perdendo da qualche settimana: il numero dei civili uccisi dai suoi bombardamenti, confermato dall’Onu e dal segretario di Stato Antony Blinken, è inaccettabile. Ma una tregua di alcuni giorni, sebbene con alcune limitazioni, è anche una sconfitta politica. Hamas ha dimostrato di esistere ancora, nonostante l’offensiva israeliana, continuando a lanciare razzi su Tel Aviv e a negoziare. Ora ha avuto anche il tempo per riorganizzarsi sul campo di battaglia: c’è una tregua ma la guerra è tutt’altro che finita.

La pressione americana, corroborata da una mobilitazione internazionale critica verso Israele come non si era mai vista nelle sue guerre precedenti, deve essere stata convincente se il premier Bibi Netanyahu e il gabinetto di guerra l’anno accolta. A rischio c’è la coalizione di governo con l’estrema destra nazionalista: disinteressandosi degli ostaggi, quest’ultima si opponeva ad ogni concessione.

Da qualche tempo Joe Biden passa da un successo all’altro: l’imposizione della tregua a Gaza e il primo scambio di prigionieri, la riapertura del dialogo con Xi Jinping, la vittoria democratica in alcune votazioni negli stati, l’occupazione americana che sale e l’inflazione che scende. Ma i sondaggi elettorali continuano a darlo perdente. Era successo anche a Bill Clinton e Barack Obama, un anno prima delle presidenziali. Ma non avevano 82 anni: se le decisioni che Biden prende dimostrano lucidità politica, l’immagine fisica che da di se lo fa sembrare ancora più senile.

La crisi di Gaza è stata gestita con lucidità. Pochi giorni dopo il massacro del 7 ottobre, compiuto dai miliziani di Hamas, Joe Biden era arrivato in Israele a mostrare solidarietà e a ribadire il diritto israeliano di difendersi. Ma già nelle prime dichiarazioni – l’invito a non commettere gli errori fatti dagli americani dopo l’11 Settembre 2001 – la vicinanza era accompagnata dai primi ammonimenti. Nelle votazioni al Consiglio di sicurezza dell’Onu, gli Stati Uniti hanno continuato a dare tempo a Israele. Ma quello che Biden e la diplomazia dicevano a porte chiuse agli israeliani era molto diverso dalle manifestazioni pubbliche.

Non la Cina o la Russia hanno la gravitas necessaria né il credito politico (3,7 miliardi di dollari l’anno in aiuti militari più i 14 straordinari decisi all’inizio di questa guerra) per imporre moderazione a Israele. Nonostante questo, più volte Netanyahu ha enfaticamente respinto le proposte americane sul dopo-guerra di Gaza. Ma alla fine è stato costretto a cedere sulla tregua.

Tuttavia non è certo che gli israeliani abbiano capito ciò che a Biden e ai leader europei che lo avevano seguito nelle visite di solidarietà, è diventato progressivamente chiaro: il mutato atteggiamento delle publiche opinioni verso la guerra d’Israele.

L’antisemitismo subito riemerso come un cancro incurabile, è un sintomo pericoloso. Ma sarebbe sbagliato credere che sia la sola spiegazione delle proteste contro i bombardamenti su Gaza: questo cerca di far passare l‘hasbara, una forma sofisticata di propaganda dei governi di Gerusalemme. Soprattutto quelli guidati da Bibi Netanyahu.

Le politiche di ogni governo possono essere criticate”, sosteneva qualche giorno fa Josep Borrell, il responsabile Ue per la politica estera. Farlo con Israele non implica un insulto alla società israeliana, ancor meno agli ebrei. Sebbene sia sempre necessario ricordare a quali tragedie sia scampato il popolo ebraico e chi ne porti le responsabilità storiche.

Se tuttavia Israele è un paese democratico non c’è brutalità subita che possa giustificare una risposta ancora più brutale, come quella sulla popolazione inerme di Gaza.

L’evidenza del disastro umanitario nella striscia, accompagnato dalla quotidiana violenza contro i palestinesi della Cisgiordania occupata, condotta dalle forze armate e dai coloni, rende la situazione intollerabile. Quando finirà il conflitto e con qualsiasi risultato avvenga, la necessità di un confronto sul futuro della Palestina sarà ineludibile. Israele sarà costretto a dare risposte difficili a se stesso e alla comunità internazionale.

 

 

 

  • carl |

    Noto che il titolo dell’articolo non è espresso in modo interrogativo.. Tuttavia se lo fosse, per sapere cosa accadrà dopo la tregua in atto ci vorrebbe, si fa per dire, come minimo una “pizia” di Delfi.. Ma di questi tempi quand’anche esprimesse un oracolo con o senza la virgola mobile..(chi non conosce il famoso: “Andrai in guerra morirai non, tornerai…”, è probabile che il gabinetto, sia pure di guerra, non ne terrebbe conto.. D’altra parte nell’ascoltare un giornale radio ho sentito che un portavoce egiziano ha avvertito che non sarà tollerata l’espulsione dei “gazaoui” nel deserto egiziano del Sinai.. Arriverà a questo il gabinetto ebraico in carica contando sul fatto di avere in M.O. il monopolio nucleare ? Speriamo di no. Ma la tentazione potrebbe emergere.. Infatti, espulsa o indotta a sfollare nel Sinai la popolazione di Gaza (una paio di milioni di persone… che sarebbero assistite da chi..?), lo tsahal potrebbe ritenere fattibile il procedere ad una “dehamasizzazione” nella striscia. Ma quale sarebbe l’effetto su Egitto, Lega araba, ed altri ed eventuali? “This is the question…”

    P.s. per non parlare (another question..) del fatto che in un “servizio” mi è capitato di vedere in occasione del “black friday” dei cosiddetti “coloni” andare a fare shopping con un mitra a tracolla..

  • FERDINANDO PELLEGRINI |

    Pienamente d’accordo Ugo, ma senza pesanti rinunce israeliane non vedo futuro

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