Ripubblico sul blog i miei due primi commenti sul nuovo conflitto di Gaza, usciti sul Sole 24 Ore domenica 8 e lunedì 9 ottobre.
Ugo Tramballi
Per una volta nella sua lunga carriera politica Bibi Netanyahu ha detto la verità: “Siamo in guerra”. E’ difficile chiamare diversamente l’inusitata operazione militare scatenata nella notte da Hamas. Non i soliti razzi, non le manifestazioni davanti alla barriera d’acciaio che separa la striscia di Gaza da Israele. Un vero assalto, un’invasione del territorio nemico.
Un’operazione così non poteva essere improvvisata: deve essere stata preparata a lungo. Fatte le dovute proporzioni, il fallimento dell’intelligence e l’impreparazione militare alla frontiera, ricordano l’inizio della guerra del Kippur: giusto cinquant’anni fa, il 6 ottobre 1973. Anche il 6 ottobre 2023 era un giorno di festa e il 7 era shabbat.
Ma nella ricerca di cosa abbia spinto Hamas, la Fratellanza islamica palestinese, a un attacco così vasto, l’opportunità offerta dalle feste del nemico non è sufficiente. C’è una differenza troppo grande di armi e addestramento perché il movimento palestinese speri di sconfiggere lo stato ebraico. La presa di decine, forse centinaia di ostaggi civili renderà tuttavia difficile per Israele fare uso come in passato della sua devastante potenza.
I palestinesi sono famosi nel perdere opportunità politiche e dare interpretazioni sbagliate sullo stato ebraico. Hamas potrebbe aver pensato che le manifestazioni in difesa della democrazia contro il governo di estrema destra, abbiano indebolito Israele. Il paese è in effetti spaccato in due; i riservisti, compresi i piloti da caccia, si erano rifiutati di spondere al richiamo.
Tuttavia ieri mattina, immediatamente dopo l’attacco, la settimanale manifestazione democratica del sabato sera a Tel Aviv è stata sospesa. Tutti i riservisti si sono presentati alle loro unità per andare a combattere. Hamas dovrebbe sapere che nulla ricompatta le divisioni e le diversità israeliane, quanto la sicurezza nazionale.
E’ dunque possibile che un attacco come questo, dalle dimensioni di una guerra, possa essere stato organizzato in solitudine? In questi ultimi anni l’estremismo di Hamas si era limitato alle parole, ai soliti slogan della tauromachia palestinese. Nelle sue azioni e nei testi politici, il movimento sembrava avere intrapreso una strada più politica.
Per mantenere il suo consenso popolare, Hamas aveva bisogno di migliorare le condizioni di vita dei palestinesi di Gaza: solo Israele poteva aiutarlo in questo. Israele aveva bisogno di rafforzare la sua sicurezza: ed era Hamas che da Gaza e dalla Cisgiordania poteva garantirla.
Con la mediazione egiziana e del Qatar, il precedente governo di Yair Lapid aveva promosso questo scambio fra economia e sicurezza. Negli ultimi scontri sia a Gaza che nella Cisgiordania occupata, Hamas aveva sempre tenuto le distanze dal militarismo della Jihad Islamica.
Poi qualcosa è cambiato. Da qualche mese Jenin, Nablus, Hebron, perfino la tranquilla Gerico sono in ebollizione. Prima di questo nuovo conflitto, già a ottobre il numero di palestinesi uccisi dagli israeliani nei Territori era di gran lunga superiore alle statistiche dell’anno scorso. E il 2022 era stato il più sanguinoso dai giorni della seconda Intifada.
E’ possibile che l’Iran possa avere spinto e diretto Hamas all’assalto da Gaza? E’ plausibile. E questo potrebbe bastare, anche in assenza di prove concrete, a spingere il governo estremista guidato da Bibi Netanyahu ad allargare il conflitto verso l’Iran: il premier israeliano ha sempre manifestato l’intenzione di farlo.
In un certo senso la guerra scatenata da Hamas è una specie di 11 Settembre d’Israele: un’aggressione brutale, vittime civili, una messa in discussione della sicurezza nazionale. Negli Stati Uniti l’amministrazione neo-con di George Bush, reagì in maniera sbagliata: furono limitate le libertà civili degli americani; scatenata in Afghanistan la più lunga guerra mai combattuta dagli Usa; invaso l’Iraq e destabilizzata l’intera regione.
Colpita Gaza e ripristinata la sicurezza al Sud del paese, eliminati i responsabili di Hamas, come agirà il governo Netanyahu? Alcuni ministri invocano il ritorno dei coloni ebrei nella striscia, l’annessione della Cisgiordania e la pulizia etnica.
E’ ancora presto per capire se questa nuova guerra fra israeliani e palestinesi, sarà cauterizzata in pochi giorni dalla mediazione di americani, egiziani e Qatar; o se questo è solo l’inizio di un altro conflitto regionale, uno dei più pericolosi di un lunghissimo elenco.
Bisogna vedere se scoppieranno disordini a Gerusalemme e se si allargherà la rivolta in Cisgiordania. Cosa farà Hezbollah libanese: parteciperà, ignorando la grave crisi economica e politica a Beirut? Occorrerà capire se l’Iran intenda diventare un protagonista della crisi; e se il governo israeliano voglia approfittare dell’occasione offerta da Hamas per risolvere brutalmente la questione palestinese.
Una cosa sola sembra ovvia. Tutto ciò che sta accadendo è il prevedibile risultato dell’assenza di un orizzonte diplomatico che Netanyahu né Hamas in questi anni hanno mai cercato.
Ugo Tramballi
Per una volta nella sua lunga carriera politica Bibi Netanyahu ha detto la verità: “Siamo in guerra”. E’ difficile chiamare diversamente l’inusitata operazione militare scatenata nella notte da Hamas. Non i soliti razzi, non le manifestazioni davanti alla barriera d’acciaio che separa la striscia di Gaza da Israele. Un vero assalto, un’invasione del territorio nemico.
Un’operazione così non poteva essere improvvisata: deve essere stata preparata a lungo. Fatte le dovute proporzioni, il fallimento dell’intelligence e l’impreparazione militare alla frontiera, ricordano l’inizio della guerra del Kippur: giusto cinquant’anni fa, il 6 ottobre 1973. Anche il 6 ottobre 2023 era un giorno di festa e il 7 era shabbat.
Ma nella ricerca di cosa abbia spinto Hamas, la Fratellanza islamica palestinese, a un attacco così vasto, l’opportunità offerta dalle feste del nemico non è sufficiente. C’è una differenza troppo grande di armi e addestramento perché il movimento palestinese speri di sconfiggere lo stato ebraico. La presa di decine, forse centinaia di ostaggi civili renderà tuttavia difficile per Israele fare uso come in passato della sua devastante potenza.
I palestinesi sono famosi nel perdere opportunità politiche e dare interpretazioni sbagliate sullo stato ebraico. Hamas potrebbe aver pensato che le manifestazioni in difesa della democrazia contro il governo di estrema destra, abbiano indebolito Israele. Il paese è in effetti spaccato in due; i riservisti, compresi i piloti da caccia, si erano rifiutati di spondere al richiamo.
Tuttavia ieri mattina, immediatamente dopo l’attacco, la settimanale manifestazione democratica del sabato sera a Tel Aviv è stata sospesa. Tutti i riservisti si sono presentati alle loro unità per andare a combattere. Hamas dovrebbe sapere che nulla ricompatta le divisioni e le diversità israeliane, quanto la sicurezza nazionale.
E’ dunque possibile che un attacco come questo, dalle dimensioni di una guerra, possa essere stato organizzato in solitudine? In questi ultimi anni l’estremismo di Hamas si era limitato alle parole, ai soliti slogan della tauromachia palestinese. Nelle sue azioni e nei testi politici, il movimento sembrava avere intrapreso una strada più politica.
Per mantenere il suo consenso popolare, Hamas aveva bisogno di migliorare le condizioni di vita dei palestinesi di Gaza: solo Israele poteva aiutarlo in questo. Israele aveva bisogno di rafforzare la sua sicurezza: ed era Hamas che da Gaza e dalla Cisgiordania poteva garantirla.
Con la mediazione egiziana e del Qatar, il precedente governo di Yair Lapid aveva promosso questo scambio fra economia e sicurezza. Negli ultimi scontri sia a Gaza che nella Cisgiordania occupata, Hamas aveva sempre tenuto le distanze dal militarismo della Jihad Islamica.
Poi qualcosa è cambiato. Da qualche mese Jenin, Nablus, Hebron, perfino la tranquilla Gerico sono in ebollizione. Prima di questo nuovo conflitto, già a ottobre il numero di palestinesi uccisi dagli israeliani nei Territori era di gran lunga superiore alle statistiche dell’anno scorso. E il 2022 era stato il più sanguinoso dai giorni della seconda Intifada.
E’ possibile che l’Iran possa avere spinto e diretto Hamas all’assalto da Gaza? E’ plausibile. E questo potrebbe bastare, anche in assenza di prove concrete, a spingere il governo estremista guidato da Bibi Netanyahu ad allargare il conflitto verso l’Iran: il premier israeliano ha sempre manifestato l’intenzione di farlo.
In un certo senso la guerra scatenata da Hamas è una specie di 11 Settembre d’Israele: un’aggressione brutale, vittime civili, una messa in discussione della sicurezza nazionale. Negli Stati Uniti l’amministrazione neo-con di George Bush, reagì in maniera sbagliata: furono limitate le libertà civili degli americani; scatenata in Afghanistan la più lunga guerra mai combattuta dagli Usa; invaso l’Iraq e destabilizzata l’intera regione.
Colpita Gaza e ripristinata la sicurezza al Sud del paese, eliminati i responsabili di Hamas, come agirà il governo Netanyahu? Alcuni ministri invocano il ritorno dei coloni ebrei nella striscia, l’annessione della Cisgiordania e la pulizia etnica.
E’ ancora presto per capire se questa nuova guerra fra israeliani e palestinesi, sarà cauterizzata in pochi giorni dalla mediazione di americani, egiziani e Qatar; o se questo è solo l’inizio di un altro conflitto regionale, uno dei più pericolosi di un lunghissimo elenco.
Bisogna vedere se scoppieranno disordini a Gerusalemme e se si allargherà la rivolta in Cisgiordania. Cosa farà Hezbollah libanese: parteciperà, ignorando la grave crisi economica e politica a Beirut? Occorrerà capire se l’Iran intenda diventare un protagonista della crisi; e se il governo israeliano voglia approfittare dell’occasione offerta da Hamas per risolvere brutalmente la questione palestinese.
Una cosa sola sembra ovvia. Tutto ciò che sta accadendo è il prevedibile risultato dell’assenza di un orizzonte diplomatico che Netanyahu né Hamas in questi anni hanno mai cercato.
Ugo Tramballi
E’ presto per capire quale sarà il risultato di questa guerra, quanto durerà, se vi saranno coinvolti altri attori regionali e come Israele ne uscirà. Nel frattempo, Hamas ha già vinto la sua partita: ha umiliato i nemici, ucciso e rapito centinaia di loro, incrinato l’immagine d’invincibilità dell’esercito più potente e tecnologicamente avanzato del Medio Oriente.
Tsahal, le forze armate d’Israele, si sono già messe in moto per una risposta che non avrà precedenti nella devastazione promessa: ci sarà una nuova invasione terrestre, bombardamenti dal cielo mai visti prima. Tuttavia, una volta di più, non vincerà perché Hamas sopravviverà.
Anche nel 1973, nella guerra del Kippur, Israele fu colto di sorpresa da egiziani e siriani. Ma alla fine vinse. A Gaza non sarà così perché gli israeliani sono in grado di sconfiggere ogni esercito ma i palestinesi di Hamas o Hezbollah libanese sono un’altra cosa: come ogni guerriglia popolare operano nel loro territorio. Sono pesci che nuotano nel loro fiume, avrebbe detto Mao Zedong.
Il destino d’Israele, invece, è di dover vincere le sue guerre: anche quando non le perde – come appunto le molte di Gaza o nel Sud del Libano nel 2006, prive di un chiaro vincitore – è comunque una prova di debolezza. Come se fosse stato sconfitto. L’avversario si rafforza, guadagna consenso fra la sua gente a scapito dei più moderati; e in Israele il governo viene travolto dalle critiche.
Altre centinaia, forse migliaia di palestinesi di Gaza moriranno nella controffensiva israeliana. Una volta di più, e probabilmente più di prima, la striscia verrà rasa al suolo, sradicando ogni forma di sopravvivenza economica. Ma Hamas, la fratellanza islamica palestinese, è un movimento millenaristico, non bada alle conseguenze del presente. Le perdite umane non sono una preoccupazione perché l’obiettivo è divino.
Più o meno come l’idea di pulizia etnica dei palestinesi e l’annessione della Cisgiordania, che hanno Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, i due ministri nazional-religiosi israeliani. A loro non importa che la realizzazione del loro obiettivo comporterebbe la fine dell’aiuto militare americano, della democrazia israeliana e l’isolamento internazionale. Gli scopi del loro agire sono indicati dalle sacre scritture. Nel conflitto fra israeliani e palestinesi l’uso politico di Dio è ormai sempre più diffuso e devastante.
Anche se saranno uccisi tutti i capi politici e militari di Hamas, i loro successori potranno sfruttare le conseguenze di questa vittoria. Le migliaia di immagini mostrate sul web di israeliani uccisi, inseguiti, terrorizzati, costretti a inginocchiarsi; i selfie sui Merkava e sulle jeep blindate sottratte al nemico; le scorribande per le strade delle città del Sud d’Israele, uccidendo o sequestrando chiunque capitasse a tiro, hanno galvanizzato i palestinesi.
Il loro naturale istinto al massimalismo politico rischierà di essere rafforzato dall’illusione di poter sconfiggere Israele. Se mai ancora esistesse la speranza di una ripresa del negoziato, sarebbe spazzata via dal crescente desiderio di vendetta sia dei palestinesi che degli israeliani.
Conseguenze ci saranno anche nelle strade del mondo arabo. Ci sono già state manifestazioni di giubilo in Iraq e un poliziotto egiziano ha ucciso due turisti israeliani. Oggi Israele è riconosciuto dalla gran parte del Medio Oriente. Ma sono paci fra governi, non fra popoli. Nemmeno la più antica, quella con l’Egitto, è diversa. Per distrarre l’attenzione dai loro fallimenti, per decenni i regimi arabi avevano mobilitato le loro opinioni pubbliche contro il “nemico sionista”.
Dal Marocco all’Arabia Saudita, sarà ora più difficile spiegare le necessità della normalizzazione politica ed economica con Israele, a un’opinione araba che ha visto quelle immagini di una battaglia così inaspettatamente vittoriosa.
L’assalto di Hamas a Israele non aveva come obiettivo il possibile riconoscimento fra Arabia Saudita e Israele. Quell’accordo è comunque ancora molto lontano: Riyadh vuole dagli americani un programma nucleare che preveda il suo controllo sull’arricchimento dell’uranio; e da Bibi Netanyahu pretende la ripresa del negoziato con i palestinesi. Non Joe Biden per la sua parte né il premier israeliano sono disposti a concederlo. Ma aver contribuito a rendere ancora più complicata quella normalizzazione, garantisce ad Hamas un’altra vittoria.