“Assomiglia a volte a un’annuale orgia d’ipocrisia”, dice il New York Times dell’annuale Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Inesorabile come il ritorno dell’autunno, ad ogni settembre l’Assemblea si riunisce al Palazzo di Vetro per ascoltare i leader dei 193 paesi associati e dei due osservatori: Vaticano e Palestina.
La sferzante definizione del giornale americano è riferita all’impegno solenne preso nel 2015 sugli “obiettivi per lo sviluppo sostenibile”, “niente povertà”, “zero fame” nel mondo entro il 2030. Siamo quasi a metà strada ma fame, miseria e migrazioni aumentano anziché diminuire.
Pandemia e Vladimir Putin hanno contribuito a peggiorare lo stato del mondo. Ma gli impegni sull’ineguaglianza e i risultati mediocri non sono l’unica illusione che l’Assemblea offre all’umanità. Proporre, promettere, impegnarsi e, nella gran parte dei casi, non realizzare: è l’iter consueto. Naturalmente la responsabilità maggiore è dei paesi membri, ma l’Onu diventa fatalmente riflesso e capo espiatorio delle inadempienze dei governi nazionali e delle loro bugie.
E’ difficile trovare un tema dominante nell’Assemblea di quest’anno: strascichi della pandemia, inflazione globale, guerra in Ucraina e altri conflitti; clima, globalizzazione e protezionismi, fame e ineguaglianze, migrazioni; il confronto Usa-Cina-Russia, le ambizioni dei paesi emergenti come India e Brasile. Più il mondo è problematico, più dispersiva è l’Assemblea generale: sul podio del Palazzo di Vetro, ogni re, presidente o premier porta il suo problema e la sua agenda.
L’equivalente di “un’assemblea cittadina del mondo”, doveva essere l’Assemblea Generale, secondo John Foster Dulles che fu tra gli estensori della Carta Onu. Qualche anno più tardi, come segretario di Stato delle due amministrazioni Eisenhower, Dulles sarebbe stato in prima linea nella Guerra Fredda.
Ma già nell’ottobre 1945, nonostante il prevalente ottimismo a guerra appena finita, in un articolo sulla rivista Foreign Affairs, Dulles indicava quali sarebbero state le zavorre dell’Onu: “Non l’Assemblea Generale né il Consiglio di Sicurezza erano qualificati per essere un corpo legislativo. In entrambi”, sottolineava Dulles, “la procedura di voto è così artificiale che non riflette la volontà dominante della comunità mondiale”.
“Nell’Assemblea dove ogni stato ha un voto indipendentemente dalla sua dimensione, una piccola minoranza del mondo può imporre la sua volontà sulla grande maggioranza” concludeva la riflessione. “Nel Consiglio di Sicurezza un solo grande stato può bloccare l’azione desiderata dagli altri”.
Il grande scheletro – lo scheletro di un mammut sia per dimensioni che per vetustà – nell’armadio delle Nazioni Unite è in effetti la riforma del Consiglio di Sicurezza: forse la più irriformabile delle istituzioni al mondo perché non riguarda partiti o lobbies economiche, ma le nazioni. E’ formato da cinque membri permanenti e 10 a rotazione.
Il mondo attorno a noi è sempre più complicato. Ma i cinque, come una grande muraglia a difesa dell’immutabilità delle vicende umane, continuano a rappresentare la geopolitica del 1945: Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna, i vincitori della II Guerra Mondiale. Nessuno intende rinunciare al suo posto. Nemmeno gli inglesi, col nulla che resta dell’impero immiserito da Brexit: i paesi del Commonwealth fanno più affari con la UE che con Londra.
A impedire la riforma sono spesso i paesi che vorrebbero farla. All’ultimo vertice Brics di Johannesburg la speranza di russi e cinesi di trasformare l’organizzazione in un’alternativa all’Occidente, non è fallita solo perché non era lo stesso obiettivo di India, Brasile e Sudafrica. Fra i paesi del così detto Global South, i tre sono i più determinati a entrare nel sinedrio globale: per loro Xi Jinping e Vladimir Putin sono un ostacolo a questa ambizione.
Quasi ogni paese che conti e diverse unioni regionali hanno un loro progetto di riforma. Tuttavia gli indiani non vogliono i pakistani e viceversa; così il Sudafrica e la Nigeria, il Brasile e l’Argentina, Giappone e Corea del Sud, Egitto piuttosto che Turchia o Arabia Saudita. Il sostegno a questo o quel paese, a una o l’altra riforma, è volatile come le alleanze fra le contrade di Siena prima del Palio.
La Carta Onu che John Foster Dulles contribuì a scrivere senza nascondere qualche perplessità, stabilisce che ogni emendamento deve avere il voto dei due terzi dei paesi del mondo e di tutti e cinque i membri permanenti del sancta sanctorum. Come dire che il Consiglio di Sicurezza continuerà ad attraversare immutato anche buona parte del XXI secolo.
La sua ultima risoluzione sul ritiro israeliano dai territori arabi occupati è la numero 338 del 1973. Il 15 settembre il Consiglio di Sicurezza ha approvato la numero 2697 su “La situazione in Somalia”. Cinquant’anni e 2359 risoluzioni più tardi Israele continua ad occupare la Cisgiordania.
Nell’ultima risoluzione in ordine di tempo, la 2697 appunto, “il Consiglio estende il mandato del team investigativo per sostenere la responsabilità dei crimini commessi da Da’esh/Isis”: perpetrati notoriamente da decenni in Somalia, anche senza ulteriori indagini.
La domanda posta recentemente da Volodymyr Zelensky, il presidente ucraino, è dunque giustificata: “Dov’è questa sicurezza che il Consiglio di Sicurezza dovrebbe garantire?”.