“Oggi sono 56 anni….”, aveva esordito dal palco di Kaplan street, Shikma Bressler, scienziata, attivista sociale, che il movimento pro-democratico senza una leadership formale, riconosce come eroina. Era l’inizio di giugno: il ventiquattresimo sabato consecutivo di manifestazioni contro il tentativo del peggior governo della storia d’Israele, di ridurre il paese in qualcosa di simile alla Turchia di Erdogan o all’Ungheria di Orbàn.
L’esordio di Bressler sembrava voler finalmente chiarire la questione che ogni settimana, in maniera crescente, divideva il movimento anti-Netanyahu: è possibile lottare per l’autonomia del giudiziario, la laicità dello stato, il diritto di manifestare, ignorando la questione palestinese? La democrazia è compatibile con l’occupazione?
L’incipit di Bressler sembrava voler sottolineare che erano 56 anni da che, dopo la guerra del 1967, Israele occupava la Cisgiordania. Invece – intendeva la leader del movimento – erano quasi sei lustri che il Muro del Pianto era stato liberato; e che molti dei vecchi parà che avevano combattuto, ora erano anche loro a Kaplan Street, Tel Aviv, a manifestare.
E’ con molta riluttanza, se non aperta ostilità, che molti ammettono la distonia fra i valori di una democrazia vibrante come è quella israeliana per gli ebrei d’Israele, e il controllo, lo sfruttamento delle risorse, la progressiva annessione del territorio di un altro popolo. Credo che Shikma Bressler e gli altri leader del movimento lo sappiano con chiarezza. Ma quando avevano deciso di eliminare gli slogan che riguardavano anche i diritti dei palestinesi, con uguale lucidità sapevano che se li avessero permessi, avrebbero perso un gran numero di manifestanti.
C’era un altro fondamento logico nella scelta d’ignorare il problema politico e umano del popolo accanto: la salvaguardia delle libertà israeliane è prioritaria; senza di queste, nemmeno una Palestina avrà un futuro. E’ probabile e anche comprensibile: ma non del tutto convincente dal punto di vista di un palestinese.
Quando erano incominciate le manifestazioni democratiche, dall’Italia continuavano a chiedermi cosa avessero a che fare con la questione palestinese. Faticavano a credere che in Israele potesse accadere qualcosa di così grande senza che, nel bene o nel male, non ci fosse di mezzo la sua nemesi. Cercavo di spiegare che erano due storie separate, sebbene parallele e che presto o tardi si sarebbero sovrapposte.
E’ accaduto. Anche dal punto di vista strettamente legislativo: due settimane fa il governo nazional-religioso ha semplificato le procedure per allargare le colonie e costruirne di nuove. Bezalel Smotrich – ministro delle Finanza senza sapere cosa siano, e contemporaneamente governatore dalle idee chiare e allarmanti, dei territori occupati – può decidere ciò che vuole. La legge cancella i sei passaggi legali precedenti, eliminando anche il potere di giudizio che aveva la Corte Suprema.
La questione delle colonie è dunque un capitolo dell’attacco dell’esecutivo estremista al potere e all’autonomia dei giudici. Il termine “occupazione”, scrive sul Jerusalem Post, Nadav Tamir, rappresentante israeliano di J Street, “sta tornando, con la comprensione che non stia solo danneggiando i palestinesi e i soldati israeliani mandati a imporla, ma che i suoi metodi stiano lentamente penetrando nella società israeliana”.
J Street è la lobby di Washington pro-israeliana liberal, in contrasto con la storica Aipac che per tradizione sostiene i governi di Gerusalemme qualsiasi cosa facciano. Temo che Tamir sia forse troppo ottimista. Alla manifestazione della settimana scorsa un gruppo di manifestanti favorevoli alla difesa della loro democrazia e anche delle colonie, aveva aggredito fisicamente chi sorreggeva cartelli con scritto “la democrazia è incompatibile con l’occupazione”.
Ormai esiste un “anti-occupation bloc”, con i suoi slogan, striscioni e bandiere (anche palestinesi), distinto dal resto dei manifestanti del sabato: emarginato dalla polizia e anche dagli organizzatori. La realtà è complessa.
Verso i palestinesi, gli israeliani vivono una condizione di rifiuto. Non essendoci una soluzione politica del problema, e la maggioranza non sia disposta ad ammettere una pulizia etnica; ma essendo i palestinesi di Gaza, Israele, Gerusalemme Est e Cisgiordania sette milioni e mezzo, gli ebrei negano, fingono d’ignorare l’esistenza e la profondità del dilemma. Quando questo si presenta con atti di terrorismo o di resistenza, si compattano dietro al rassicurante ma non permanente scudo della sicurezza.
Il Jerusalem Post, un buon giornale di centro/centro destra, convinto sostenitore della lotta per la democrazia, è un esempio di questa nevrosi: apre le pagine dei commenti con Nadav Tamir; contemporaneamente dedica un inserto ai 40 anni di Efrat, insediamento di 12mila abitanti a Sud di Betlemme. Erta stato fondato da un rabbino emigrato dal Queens, New York.
Passato il XXVIII sabato di manifestazioni, già si organizza il prossimo. O forse era già il XXIX e il successivo porterà alla trentesima settimana, con le stesse speranze e le medesime contraddizioni.
Allego un articolo sull’operazione militare a Jenin, uscito nei giorni scorsi sulle pagine del Sole 24 Ore.
Ugo Tramballi
Dopo aver manifestato a Tel Aviv per il ventisettesimo sabato consecutivo, per essere più incisivi ieri i difensori della democrazia israeliana hanno paralizzato l’aeroporto Ben Gurion. Tutto questo per impedire che il governo nazional-raligioso di Bibi Netanyahu, sottoponga l’indipendenza del sistema giudiziario al controllo della maggioranza politica.
Contemporaneamente, a circa 70 chilometri in linea d’aria, l’esercito israeliano prendeva d’assalto Jenin, nella Cisgiordania occupata. Fanteria, aeronautica, droni: era dalla seconda Intifada che non si vedeva un simile spiegamento di forze. Ieri la città palestinese sembrava un campo di battaglia della guerra in Ucraina. A sera i morti (palestinesi) accertati erano 8, decine i feriti.
Netanyahu ha chiarito che Jenin non sarà occupata: entro oggi l’operazione dovrebbe concludersi con successo. Per Israele successo è eliminare i palestinesi “terroristi”: sebbene per molti membri del suo governo, terroristi siano tutti i palestinesi. Da tempo la città era sfuggita al precario controllo dell’Autorità Palestinese. La presidiavano milizie giovanili armate, foraggiate dalla Jihad Islamica e da Hamas.
Come è già accaduto nelle piccole guerre a Gaza, i successi israeliani sono di breve durata. Per quanto Netanyahu rivendichi di aver inferto un colpo mortale ai terroristi, altri giovani e altre armi riappariranno. Come a Nablus, Hebron e a Gaza. Per l’inusuale dispiegamento di forza militare, il sospetto è che siano stati i ministri più estremisti del governo a imporre l’attacco. Non lontano da Jenin, una decina di giorni fa due palestinesi avevano ucciso quattro coloni: serviva dunque una prova di forza.
Quando è in corso un’operazione militare e c’è di mezzo la sicurezza nazionale (quanto Jenin rappresenti come l’Iran una reale minaccia, è opinabile), il paese si unisce. Anche Yair Lapid e Benny Gantz, i leader dei due principali partiti d’opposizione e difensori della democrazia, hanno appoggiato l’operazione.
L’assalto, tuttavia, non risponde solo a un’esigenza di sicurezza. Ricorda anche che Israele occupa territori di altri e che attraverso i loro rappresentanti al governo, i coloni hanno pericolose ambizioni su quelle terre. Tra queste la pulizia etnica in nome di un Israele biblico. In linea di principio, è difficile immaginare un paese democratico che controlla militarmente un altro popolo. I manifestanti a Ben Gurion dovrebbero chiedersi se indipendenza del giudiziario e questione palestinese non siano capitoli della stessa battaglia per un Israele democratico.