Uno sputo lungo duemila anni

Photo by Miriam Alster/FLASH90

Perché (alcuni) ebrei sputano contro i gentili?”. Per essere una conferenza con la partecipazione di autorevoli accademici delle più importanti università d’Israele, il titolo sembrava piuttosto singolare.

Ma è la dura cronaca a imporlo. A Gerusalemme, soprattutto nella città vecchia stracolma di fedi, sette e luoghi sacri, si moltiplicano i casi in cui gli ebrei ultra-religiosi sputano contro i cristiani. Lo sputo è solo il punto di partenza: quello per terra davanti all’obiettivo individuato come gesto di disprezzo, lo sputo direttamente sull’obiettivo, aggressioni fisiche, assalto ai simboli religiosi. Contro suore, preti e monaci ma anche pellegrini e turisti individuati come cristiani. Tutto questo conferma la mia convinzione che in questa città ci sia troppo Dio.

Alcuni” messo tra parentesi voleva sottolineare che sono un’estrema minoranza gli ebrei israeliani responsabili delle aggressioni. Ma gli episodi si moltiplicano e quei pochi che li provocano, crescono: sono soprattutto giovani coloni che scendono a Gerusalemme dalle colline attorno, istigati da alcuni rabbini e da leader razzisti che un tempo erano ai margini del sistema e oggi sono al governo.

La domanda non è quando accadono, ma quante volte al giorno accadono”, dice un frate benedettino. “Sono anni che succede. Ma prima, quando venivamo aggrediti dai picchiatori estremisti di Itamar Ben-Gvir, il governo interveniva. Oggi il ministro della sicurezza nazionale, l’uomo che dovrebbe proteggerci, è Itamar Ben-Gvir”.

Forse anche per questo il Centro Studi per le Relazioni fra Ebrei, Cristiani e Musulmani assieme alla Open University of Israel, hanno deciso di organizzare la conferenza. Non tanto per cercare una causa politica – probabilmente l’ha già illustrata il benedettino – quanto per affermare che la convivenza comunque prevale.

Sebbene il Comune di Gerusalemme guidato dal Likud di Bibi Netanyahu e dai partiti religiosi ultra-ortodossi, abbia rifiutato il patrocinio e imposto agli organizzatori di cambiare il luogo dell’incontro: da uno israeliano, al seminario del quartiere armeno nella città vecchia.

Il rabbino capo della comunità sefardita di Gerusalemme, che pure aveva ricordato quanto la religione ebraica vieti “assolutamente” gli attacchi ai cristiani, ha condannato la conferenza. Arye King, il vice sindaco Likud della città, l’ha definita “una conferenza antisemita”. Finalmente! Mancava la solita accusa di antisemitismo: un’affermazione così seria e grave che molti banalizzano, usandola in ogni occasione. Anche se speli una cipolla nel modo sbagliato.

Gli accademici intervenuti alla conferenza hanno invece ricordato a una sala gremita di prelati, monaci, suore, attivisti e fedeli di molte sette cristiane, che lo sputo come insulto (il cinese Deng Xiaoping sputava in continuazione ma non ce l’aveva con nessuno) è parte della nostra storia comune. Lo facevano gli ebrei contro i primi cristiani perché non potevano concepire che Gesù si professasse figlio di Dio; lo fecero i cristiani quando diventarono maggioranza; lo fanno gli estremisti ebrei ora che maggioranza sono loro. “Non è mai facile essere minoranza, soprattutto in un luogo conflittuale come questo”, ha ricordato Karma Ben-Johanan dell’Università Ebraica di Gerusalemme.

La conferenza era necessaria perché in tutti i precedenti storici, lo sputo è stato solo un inizio. Il primo martire cristiano fu ucciso dagli ebrei. Partendo dallo sputo, i cristiani non hanno avuto più limiti: i crociati che prima di raggiungere Gerusalemme ed eliminarne la popolazione ebraica, massacravano gli ebrei di tutte le città europee lungo il tragitto; l’inquisizione, le conversioni forzate, i rapimenti di bambini, i pogrom e infine l’Olocausto.

Spero nessuno pensi che stia paragonando gli sputi di oggi alla Shoah Ma le aggressioni nei vicoli di Gerusalemme sono un sintomo che da duemila anni accompagna la nostra storia comune, tragica nella gran parte dei casi.

P.S. Nei giorni piovosi di Pesach, la Pasqua ebraica, una famiglia askenazita di haredim, i timorati di Dio, ha suonato alla mia porta. Abito a Gerusalemme, a Musrara, il quartiere di frontiera tra la città ebraica e araba. Nella tradizione di Pesach gli ebrei devono fare un pellegrinaggio a Yerushalaim e pregare, guardando la città a loro più sacra: me lo ha spiegato la mia amica-sorella Simonetta Della Seta.

Il custode della mia casa – vista da fuori un’eco-mostro che dovrebbe essere abbattuto ma da dentro con una bellissima vista sulla città – aveva detto alla famiglia di pellegrini ebrei venuti dal Belgio, che salendo ai piani alti avrebbero potuto vedere Gerusalemme.

Quando ho aperto la porta, la famiglia era al completo: nonno, figlio, mogli, nipoti, pronipoti, uno dei quali neonato. Mi hanno chiesto se potevano entrare a pregare guardando la città. Sono rimasti sul balcone per una ventina di minuti. Allego a questo blog un breve filmato della loro preghiera: ero incerto se farlo fino a quando hanno tirato fuori i loro cellulari perché anche loro volevano ricordare quel momento.Haredim

Finita la preghiera ci sono stati altri dieci minuti di calorosi ringraziamenti e di saluti fino al pianerottolo e fino a che la porta dell’ascensore non si è chiusa dietro agli ultimi membri della famiglia.

Erano felicissimi. Lo ero anche io, in realtà: avevo dato un piccolo contributi alla lotta contro il nostro comune sputo millenario.

Allego anche per i membri della mailing list di Slow News il commento pubblicato sul Sole il 13 giugno.

UNA VECCHIA AMERICA PER UN MONDO NUOVO

Ugo Tramballi

La settimana scorsa a Cape Town i ministri degli Esteri dei Brics avevano pensato in grande. Allargare a 12 il gruppo originario dei cinque paesi fondatori: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica; sostituire il dollaro americano come valuta di riferimento; un Global South in alternativa al modello occidentale guidato dagli Stati Uniti.

Naledi Pandor, la ministra degli Esteri sudafricana era stata molto esplicita sulla necessità e l’urgenza di trasformare i Brics in alternativa all’attuale sistema globale. Anche se è difficile pensare a Russia e Cina, due superpotenze, come parte di un Global South che praticamente ancora non esiste come soggetto politico; anche se il veto posto da alcuni membri alla candidatura di nuovi aspiranti renderebbe difficile allargare i Brics. Infine, non tutti sono così convinti di voler fare a meno del dollaro.

Sarebbe tuttavia sbagliato ignorare la sfida lanciata allo status quo dal resto del mondo fuori dall’Occidente. “L’Europa pensa che i problemi dell’Europa siano problemi mondiali ma che i problemi mondiali non siano i problemi dell’Europa”, sintetizza il nocciolo della questione S.K. Jaishankar, il ministro degli Esteri indiano. L’Unione Europea è un obiettivo relativo, un soggetto ancora instabile: perderebbe molta della sua forza se gli Stati Uniti tornassero al MAGA di Donald Trump.

La vera sfida è all’America. Potenzialmente gli Usa non dovrebbero temere che il XXI secolo possa non essere un secolo americano come il precedente. Primato economico e militare sono evidenti: un po’ meno la credibilità politica.

Se la demografia è un importante strumento della geopolitica, la decrescita russa è una tragedia, quella cinese preoccupa; la crescita indiana è invece un’opportunità ma anche un problema su come governare un miliardo e 450 milioni di esseri umani. Non c’è invece paese dove demografia e capitale umano crescano in relativa armonia come negli Stati Uniti.

I 330 milioni di americani sono compatibili con le dimensioni e le risorse del paese. Sono una popolazione altamente educata: più di 56 milioni fra i 25 e i 64 anni possiedono un diploma o una laurea; il tasso di fertilità è relativamente elevato: saranno 380 milioni nel 2040; fino a pochi anni fa le politiche migratorie erano aperte: fra il 1950 e il 2015 circa 50 milioni di stranieri sono diventati cittadini americani.

Ma la sfida c’è e richiede qualcosa di diverso dal tradizionale potere economico-militar-tecnologico degli ultimi 80 anni. Servono nuove idee, leadership dinamiche, ragioni fresche che non siano solo la pura potenza fisica per riconquistare una credibilità in evidente crisi.

I primi passi della campagna presidenziale del 2024 offrono come sola speranza un candidato – Joe Biden – che in caso di conferma, inizierà il secondo mandato all’età di 82 anni. L’alternativa è un candidato repubblicano – Donald Trump, 77 anni compiuti – carico di capi d’accusa di ogni genere, dall’evasione fiscale al tradimento della patria, che potrebbe fare campagna elettorale da una prigione federale.

La terza possibilità è un altro repubblicano – Ron DeSantis – che ha solo 44 anni ma in Florida mette al bando i libri come Hitler in Germania e Vladimir Putin in Russia. Le campagne presidenziali americane sono estremamente dinamiche, molto potrebbe cambiare. Questo tuttavia è ciò che offre il presente, a sedici mesi dal primo martedì di novembre, quando si voterà l’uomo più potente del mondo.

Il mondo di oggi e dell’immediato futuro presenta un paradigma nuovo per l’America: non esiste una sola sfida. C’è la competizione cinese diversa da quella di molti paesi del Global South. Ciò che rivendica l’Arabia Saudita è diverso dalle ambizioni brasiliane e dalle aspettative indiane. E’ una geopolitica più individualistica, forse anche più democratica ma decisamente nuova.

Gli Stati Uniti non hanno mai esercitato la loro potenza in un mondo multipolare come sembra essere questo. Fino al 1945 avevano vissuto nel loro isolamento continentale protetto da due oceani. Hanno governato e vinto la sfida bipolare con l’Unione Sovietica, e drammaticamente fallito nella loro breve stagione unipolare. In un mondo dalle alleanze tanto mobili da non poter essere più chiamate alleanze, ciò che serve all’America oggi è una leadership che coniughi la necessità di garantire sicurezza nazionale e coesistenza internazionale. E’ sempre stato così per un leader democratico non sovranista. Ma ora è un’aspirazione ancor più complicata in un mondo così pletorico.

Nel suo ultimo libro, “Leadership”, Henry Kissinger sostiene che Usa e Cina si credono entrambi eccezionali: “La questione chiave per il futuro del mondo è che i due giganti imparino a combinare la rivalità strategica con un concetto e una pratica di coesistenza”. Nell’intervista del mese scorso a Economist, rilasciata per il suo compleanno (cento anni), Kissinger sostiene che Usa e Cina hanno dieci anni per trovare questo equilibrio ed evitare una guerra.

 

Il Sole 24 Ore, 13/6/2023

 

 

 

  • carl |

    A voler essere costruttivi, istruttivi, pedagogici, ecc. la prassi di sputare dovrebbe ricordare ad ogni essere umano la sua appartenenza ad una specie animale..
    Ma il fatto è che quell’elevato grado di intelligenza che, contrariamente alle altre specie che formano l’arbusto della vita animale, caratterizza i “sapiens” ha fatto sì che per certuni un mero ed utile atto riflesso come quello dello sputare finisse per divenire un atto simbolico.. Mentre altri con lo sputo hanno persino coniato forme proverbiali: :”sputa l’osso…” “sputasentenze”…
    Aggiungo altresì che andrebbe tenuto conto che l’intelligenza che caratterizza la specie umana continua purtroppo a sommarsi e andare a braccetto con quegli atavici istinti che caratterizzano ogni specie animale e, dunque, anche la nostra.
    Ecco perchè, in assenza di quel diffuso ed adeguato sforzo di volontà, istruzione, educazione, ecc. i media quotidianamente riportano “di tutto e di più”.. E la storia umana, anzichè ad un concerto polifonico ben diretto e suonato, continua ad assomigliare ad un vero e proprio disconcerto, o cacofonia che dir si voglia..
    Insomma, a qualcosa di sgradevole assai e che, oltretutto, di questi tempi la regia di turno potrebbe far concludere con un grandioso spettacolo di “son et lumière” che nemmeno gli specialisti hollywoodiani di FX sarebbero in grado di immaginare e, men che meno di riprodurre.

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