IL CORAGGIO DI LAPID

Nella cupa atmosfera dell’Assemblea generale, dove la comunità mondiale non riesce a fermare “la tempesta perfetta” di guerra, inflazione, clima e fame – come l’ha definita Antonio Guterres, il segretario generale – un indizio di speranza illumina il Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Viene dal più inaspettato dei luoghi e dal più lungo dei conflitti: Israele-Palestina.

Un accordo con i palestinesi fondato su due stati e due popoli è la cosa giusta per la sicurezza e l’economia d’Israele, e per il futuro dei suoi figli”, dice Yair Lapid, quando è il suo turno al leggio dell’Assemblea generale. E’ il primo ministro di un governo dimissionario che il primo novembre porterà Israele alla quinta elezione in poco più di tre anni: una media che a fatica l’Italia riuscirebbe a sostenere.

Il discorso di Lapid non può essere una svolta. Il suo partito, Yesh Atid (“C’è un futuro” in ebraico) e la coalizione di centro-sinistra, potrebbero perdere. Forse vincerà Bibi Netanyahu, ai limiti dell’immortalità politica, con un fronte di destra/destra estrema, nel quale ci saranno personalità razziste che un tempo lo stato d’Israele metteva in galera, non in Parlamento. Anche Israele sta andando sempre più a destra, come accade in molti paesi occidentali.

Lapid ha ragione. Solo l’esistenza di uno stato palestinese fisserà le frontiere definitive d’Israele, lo trasformerà in paese normale, garantirà una sicurezza quotidiana che oggi non ha. Ma per Netanyahu, i suoi sodali vecchi e nuovi, la Palestina sarebbe solo uno “stato del terrore” . Per loro la questione palestinese è vinta e archiviata. Lapid implicitamente ricorda a tutti che se pure effettivamente sconfitti, i palestinesi esistono: oltre 7 milioni di arabi fra il Mediterraneo e il Giordano, già più degli israeliani.

L’alternativa di uno stato bi-nazionale è impensabile; l’espulsione in Giordania dei palestinesi sarebbe la morte della democrazia ebraica: Israele finirebbe come la Russia di Putin, isolata. Nemmeno l’Aipac, la famosa lobby americana, potrebbe impedire un pesante sistema di sanzioni. Ma sembra che tutto questo non interessi a molti israeliani. Per questo la proposta di Lapid, a un mese dal voto, è coraggiosa. Lo è anche perché non la gradisce neanche l’immobile gerontocrazia dell’Autorità di Abu Mazen (87 anni), a Ramallah. Il presidente palestinese ha trovato la formula perfetta della sua sopravvivenza politica: a parole aizza il suo popolo contro gli ebrei, nei comportamenti è una specie di quisling degli occupanti israeliani.

Ma proviamo per un istante a dimenticare questo insieme di ostacoli. Immaginiamo che la proposta di Lapid affronti un contesto plausibile. Forse è solo un esercizio inutile, da speranza disperata. Tuttavia il premier uscente e difficilmente rientrante, con un atto di coraggio propone quello che non esisteva da molto tempo: un’offerta diplomatica, un orizzonte politico al conflitto. Anche senza gli ostacoli citati, e se a novembre Lapid vincesse, occorrerebbero anni perché i negoziatori tornino dove gli accordi di Oslo si erano fermati.

E’ interessante che il capitolo palestinese del suo discorso all’Onu, sia più rivolto ad Hamas a Gaza che all’Autorità a Ramallah. L’ultima breve guerra con la Jihad ha avuto risvolti nuovi: Hamas non vi ha partecipato. Per consolidare il suo potere sulla striscia, il movimento islamico ha bisogno di migliorare la qualità della vita della sua gente: servono pace ed economia. I soldi sarebbero del Golfo ma solo Israele può permetterlo. Anche Gerusalemme vuole sicurezza e manodopera da Gaza.

Qualcuno dirà che è impensabile: Hamas è un’organizzazione terroristica, nega l’esistenza d’Israele. In politica non c’è nulla d’inimmaginabile né di perenne. Avendo la pazienza di sfogliare i noiosi documenti politici del movimento, si scoprirebbe che Hamas sta compiendo lo stesso lento percorso dalla negazione all’accettazione, che negli anni ’80 fece Fatah, il partito che governa a Ramallah. E’ un processo in divenire che Yair Lapid ha il coraggio di verificare. E comunque vada, gli va riconosciuto di aver offerto un barlume di speranza a uno dei più tetri consessi della storia dell’Onu.

IL SOLE 24 ORE, 24/9

 

PUTIN E IL REFERENDUM: ANNESSIONE NUCLEARE

Un paranoico alla guida di un paese dall’incerto futuro e di fronte a un’umiliante sconfitta militare, siede sul più grande arsenale nucleare del mondo. Poco meno di 6mila testate: alcune ritirate ma ancora integre, altre immagazzinate nell’eventualità di un Armageddon; ma 1.500 strategiche e diverse centinaia tattiche, dispiegate e pronte per l’uso.

La retorica nucleare russa era già incominciata prima dell’invasione dell’Ucraina. A dicembre Valery Gerasimov, il capo di stato maggiore, aveva ricordato che le forze strategiche di Mosca sono “continuativamente pronte al combattimento”. Altri generali ne avevano apertamente minacciato l’uso. Fra le grandi potenze solo la Cina dichiara il “no first use”: l’atomica viene usata solo se un avversario lancia per primo la sua. Usa e Russia non attendono questo: sparano per primi se si sentono aggrediti.

Ma non è solo per questo che Xi Jinping non gradisce l’escalation nucleare russa in Ucraina, come già aveva dimostrato di non apprezzare l’aggressione militare convenzionale. L’arsenale cinese è solo di circa 350 testate. Probabilmente già molte di più: Pechino non ha mai aderito alle trattative sulla riduzione del nucleare fra Usa e Urss/Russia. Ma il suo arsenale è ancora lontano dall’essere da superpotenza. Perché 77 anni dopo Hiroshima e decenni di trattati sulla non proliferazione, chi ha la bomba conta più di chi non ce l’ha; e chi ha un arsenale cospicuo è una superpotenza anche se non ha i mezzi economici per esserlo: come la Russia di Putin.

La settimana scorsa il portavoce del presidente, Dmitrij Peskov, aveva voluto ricordare all’Occidente la dottrina nucleare russa: le testate tattiche sono usate se il suolo nazionale è attaccato. Ora è chiaro perché Putin vuole annettere con un referendum le regioni ucraine dove si combatte e che Mosca nemmeno controlla interamente: ogni avanzata ucraina è un’aggressione alla Grande Madre Russia.

Citando solo le armi tattiche Peskov ha voluto dare una prova di “moderazione”. Sono ordigni difensivi a bassa potenza, montate su missili a gittata limitata. Al contrario, le armi strategiche sono offensive, enormemente potenti, trasportate da missili balistici intercontinentali lanciati con la “triade”: da terra, dal cielo e dal mare.

Le testate tattiche sono anche chiamate ordigni”di teatro” o “da campo di battaglia”. Distruggono una cittadina, una brigata corazzata, non una metropoli o un intero paese. Ma il fallout nucleare c’è ugualmente.

Prima dell’avvento di Mikhail Gorbaciov e della promettente stagione degli accordi sul disarmo, nel mondo c’erano 60mila testate; oggi sono circa 10mila: il 93% russe e americane. Ma questa è una nuova stagione di gelo profondo. La diplomazia nucleare è ferma. Un anno fa Joe Biden e Putin avevano esteso il New START, il trattato sulla riduzione delle armi strategiche. Ma l’accordo presuppone reciproca trasparenza, ispezioni e notifiche. Impensabili in questo clima forse peggiore dei giorni della crisi di Cuba, 1962, quando il mondo arrivò a un passo da un conflitto nucleare. In questo mezzo secolo, con le sue provocazioni, solo Kim Jong-un ha saputo eguagliare Putin. Ma l’arsenale Nord-coreano ha 20 atomiche.

Il Sole 24 Ore 22/9

 

  • Fabio |

    Posso provare a spiegare io, con il classico gioco di “trova la differenza”: a Cuba c’erano i missili e non ci fu invasione, in Ucraina c’è stata invasione, ma non c’erano i missili.

  • carl |

    Aggiungo un commento a causa delle notizie alquanto allarmanti provenienti dal Baltico e riguardanti un possibile (anzi, probabile) sabotaggio di North Stream 1 e 2 e la cui eventuale riparazione comporterebbe notevoli difficoltà tecniche e tempi lunghi…
    “Cui prodest?”. Su Le Monde leggo tra l’altro non solo la considerazione che il grave sabotaggio in questione di fatto priva la Russia di un mezzo di pressione, ma anche un accenno agli avvertimenti che delle non meglio precisate autorità militari diramano periodicamente sul pericolo di possibili sabotaggi riguardanti le svariate reti di condotte sottomarine di gas e petrolio, ma anche di elettricità, telecomunicazioni…
    Il fatto è che se cominciano sabotaggi del genere, può esserci un crescendo.. E, in tal caso, come può andare a finire..?

  • habsb |

    egr. sig Carl

    Ha perfettamente ragione quando paragona la situazione ucraina a quella dei missili cubani nel 1962, e dovremmo chiedere al dr. Tramballi che parla di “provocazioni .. del paranoico alla guida di un paese dall’incerto futuro” di spiegaci in cosa differiscono le due situazioni.

    Dovrebbe poi spiegarci anche in cosa l’intervento russo nella guerra civile ucraina differisce dall’intervento USA nella guerra civile libica (oltre al fatto che i russi non hanno distrutto la capitale ucraina come invece hanno fatto gli USA in Libia)

    E infine, dovebbe speigarci perché il Kosovo ha diritto all’autodetemrinazione, ma non il Donbass.

    E perché l’Azerbaijan ha diritto di riunire alla madrepatria il Nagorno Karabakh, ma la Russia non ha lo stesso diritto con il Donbass.

    E ancora perché i bombardamenti serbi di Clinton senza mandato ONU sono sacrosanti, ma non quelli ucraini di Putin

    Poi perché il milione di morti iracheni motivato da una menzogna proferita all’ONU da Colin Powell non sono un problema, ma lo sono invece i morti ucraini

    E infine perché i sauditi hanno diritto di fare in Yemen quello che i russi fanno in Ucraina

    Riuscirà il dr. Tramballi a spiegarci tutto cio’ ? Ho seri dubbi, ma sono pronto ad ascoltare

  • carl |

    Primo quiz. E’ più importante una mobilitazione elettorale, o una di leva accompagnate da promesse che come disse Chirac, tra il serio ed il faceto, “engagent seulement ceux qui y croivent…” (impegnano soltanto coloro che ci credono…) specie, ma non solo nell’Italia nostra, un Paese senza materie prime ed energetiche e con tanti, gravi e seri vincoli esterni?
    E se nello Stato ebraico alla presenza di milioni di cittadini arabi viene data un’indubbia importanza e la cui possibile e comunque auspicabile integrazione implicherebbe non poco tempo, volontà e svariate misure sul piano socio-politico, economico e, non ultimo, dell’istruzione…In occidente invece si nicchia (e anche peggio) di fronte all’accoglienza degli attuali flussi di immigrati “Malthusiani”e non si parla minimamente delle assai più numerose ondate di migranti cosiddetti “climatici”, che si prospettano all’orizzonte.. Secondo quiz..Si finirà per affrontare questa spinosissima questione limitandosi a cambiare i vertici delle FFAA, polizia, ecc. contando sulla cieca obbedienza della maggior parte dei subordinati (e l’indifferenza di tanta cittadinanza) come nel caso storico esaminato da H.Arendt?
    Quanto al conflitto ucraino, credo che sia imparzialmente difficile negare la validità dell’argomento espresso da Putin mesi orsono, e cioè che la Russia non può tollerare la presenza di missili nucleari NATO a 5/10 minuti di volo da Mosca.. Il che come ci ricordano documentari e films fu all’origine della crisi del 1962, quando i missili in questione erano a pochi attimi di volo dalle coste statunitensi. Insomma, difficilmente ci saranno pace, tregua, accordi, ecc. fintanto che, come minimo, i missili in questione non siano ad uguale distanza dai due maggiori antagonisti (USA e RU). Quanto all’Europa Occ. essa si trova in mezzo e solo F e UK hanno missili del genere e, almeno in terra ferma, ad una distanza che potrebbe consentire alla RU di pensare:”MAD o non MAD?”(Mutua Distruzione Assicurata, ma MAD in inglese significa anche “follia”..). Ad altra occasione le possibili implicazioni tattico-strategiche delle annessioni refendarizzate.

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