Il Levante nel dedalo del suo gas

Il gas naturale può attendere. Nei prossimi anni ci concentreremo sul futuro, sull’energia verde, sulle rinnovabili”, aveva detto Karin Elharrar, ministra israeliana dell’Energia. Era metà dicembre. Due mesi più tardi Vladimir Putin ha aggredito l’Ucraina ed è cambiato tutto.

L’improvvisa fame energetica europea e il business che produce, non possono essere ignorati. La stessa ministra, convinta ecologista, ha capito che anche Israele con le sue importanti risorse provate e potenziali, deve concorrere al grande affare del gas naturale. L’Unione Europea ha intenzione di proporre un accordo con Israele ed Egitto per la fornitura di energia. La bozza preparata a Bruxelles non indica la quantità dell’importazione ma i tempi del contratto: nove anni. E’ questa la ragione principale della visita contemporanea a Gerusalemme della presidente della Commissione Europea Ursula Von der Lyen e di Mario Draghi.

All’inizio era EastMed, il gasdotto del Levante per definizione: 1.900 chilometri off-shore. Egitto, Israele, Cipro, Grecia, Italia, con qualche derivazione terrestre verso Giordania, possibilmente Libano e Siria. Una volta scoperto ed estratto, il gas deve essere trasportato ai mercati di riferimento. Stabilito il costo, probabilmente attorno a 12 miliardi, e verificate le difficoltà tecniche – un mare troppo profondo – gli Stati Uniti si erano tirati indietro da EastMed. Poi anche l’Italia. Infine la Turchia aveva posto il suo veto.

Il gas del Levante, infatti, è condizionato da un terzo problema: l’instabilità della regione. L’isola di Cipro continua ad essere divisa in due; la parte settentrionale è militarizzata dai turchi che non hanno nessun desiderio di sostenere la riunificazione. Anche i giacimenti ciprioti sono contesi ed è per questo che l’esplorazione è in ritardo. Poi c’è il Libano che preferisce un eventuale un conflitto a un compromesso con Israele.

Senza EastMed l’unico modo di portare a Nord il gas di questa parte di Medio Oriente, è via Egitto: possiede due terminali per la liquefazione. Per questo a novembre il Cairo e Gerusalemme avevano firmato un accordo-quadro. L’Egitto produce 17.5 miliardi di metri cubi di gas l’anno, Israele circa 12 ma presto dovrebbe essere in grado di raddoppiare la parte destinata all’esportazione. Per gli egiziani è più difficile: la gran parte di Zohr, il suo enorme giacimento scoperto dell’Eni nel 2015, serve per garantire i consumi interni, sempre più crescenti di un paese con oltre 100 milioni di abitanti.

Secondo gli esperti, invece, le potenzialità dell’export israeliano sono enormi, più dell’Algeria e dei principali produttori africani: Israele ha 10 milioni di abitanti e, diversamente dall’Egitto, in questi anni ha investito molto sulle rinnovabili. Anche più di noi europei.

Nessuno è in grado di sostituire i 150 miliardi di metri cubi che forniva la Russia, nemmeno un grande produttore come il Qatar che dovrebbe garantire all’Europa fra i 20 e i 30 miliardi. Ma il gas del Levante potrebbe facilmente raggiungere 20 miliardi di metri cubi. Ma gli unici terminali per la liquefazione, quelli egiziani, faticano a reggere un aumento di produzione. Uno dei due, Damietta, è di competenza di Eni che ad aprile ha firmato con Egyptian Natural Gas Holding un accordo per massimizzare la produzione di GNL, il gas naturale liquido. Ora la presenza di Eni a Damietta è praticamente esclusiva.

Intanto Israele ha affidato agli anglo-greci della Energean Power i diritti per iniziare a sfruttare il giacimento di Karish, 75 chilometri al largo di Haifa. La nave per le perforazioni è già sul posto e dovrebbe incominciare a estrarre gas entro tre mesi. Karish produrrà meno di quanto si prevedesse: ma è pur sempre un giacimento da 8 miliardi di metri cubi. Il suo vero problema è la collocazione geografica.

Il Libano non permetterà a Israele di produrre gas dal nostro giacimento”, minaccia Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah. Nell’arsenale del partito-milizia sciita ci dovrebbero essere missili in grado di percorrere 75 chilometri di mare aperto. Energean Power ora è difesa da un paio di navi della marina israeliana.

I libanesi sostengono che quella zona di Karish sia nelle loro acque. Probabilmente non è vero. Da anni Israele e Libano sono in trattativa per stabilire i confini definitivi delle loro zone economiche esclusive. E’ un confronto indiretto, condotto dagli americani perché i due paesi sono in guerra: il conflitto del 2006 era stato fermato da un cessate il fuoco, non da un trattato. In realtà Amos Hochstein, il negoziatore, indicando una linea obliqua sul Mediterraneo, aveva offerto alle parti un compromesso al quale il governo libanese non ha mai dato una risposta. Il si o la contro-offerta del Libano, è da mesi nelle mani del presidente Michel Aoun. Come se il gas non fosse una priorità in un paese alla fame e senza un governo: si è votato un mese fa ma al Serraglio, sede dell’esecutivo, continua a esserci l’uscente Najib Mikati. In questi anni le divisioni settarie e personali hanno impedito al paese di capire quanto gas ci fosse sotto il suo mare. Ora sembra che lo scontro sia fra ottuagenari: Aoun e Nabih Berri, presidente del Parlamento e leader di Amal, partito sciita alleato di Hezbollah. Anche Aoun è alleato di Hezbollah la cui agenda è dettata dall’Iran che arma e finanzia il partito libanese. Ciascuno dei due non vuole far vincere l’altro.

Per non sbagliare – e perché in gioco c’è la formazione del nuovo governo – ora tutti i partiti minacciano Israele. Il presidente della Repubblica, del Parlamento, il premier uscente e tutti i possibili entranti. Intanto il Libano affonda nel disinteresse di chi dovrebbe salvarlo.

Il gas egiziano che serve a impedire il collasso definitivo, è israeliano: è parte del suo export distribuito nella regione dall’Egitto. Un po’ ne arriva anche in Siria.

IL sole 24 Ore, 14/6/22

  • Moshed |

    Il nome Leviayan nel ebraico moderno significa balena, i nomi non riguardano i giacimenti ma i blocchi in concessione per la ricerca in mare.

  • carl |

    Chiedo venia ma oggi mi è capitato di leggere l’articolo di Marroni, pubblicato accanto al Suo su IlSole del 14 u.s. il quale anzichè a Karish accenna ad un altro giacimento (maxi) di gas anch’esso scoperto (nel 2010) in mare, a 130 km da Haifa..e che, come minimo inappropriatamente, a qualcuno è venuto in mente di denominare “Leviathan”.. Che è il titolo dato da Hobbes a una sua fatica letteraria, intendendo alludere tramite esso allo strapotere esercitato sui cittadini da uno stato “sui generis”.. Si tratta di un termine presente sia nella Bibbia ebraica che nella letteratura fenicia e che vorrebbe indicare una creatura disumana e sovrumana, mostruosa, ecc. emergente dagli abissi per materializzare il caos..
    Comunque sia, denominare in tal modo una piattaforma per lo fruttamento di gas fossile mi sembra proprio del tutto fuori luogo… Mentre invece potrebbe quadrare se vi si ricorresse per tratteggiare la caotica realtà che i principali attori geopolitiici stanno attivamente contribuendo a creare e che potrebbe attendere al varco e coinvolgere sia l’umanità attuale che quella in divenire..

  • carl |

    La geopolitica non guarda in faccia a nessuno. Ed infatti si occupa equa e solidarmente di Paesi ed aree sia macro che micro.. Dal Giappone al Libano e via dicendo.
    Sull’attuale importanza di disporre di gas non ci piove..Anche se, a mio avviso, disporre di cereali è preferibile, dato che al limite si possono mangiare anche crudi, o cotti al sole come i mattoni d’antan.:) Mentre di gas campano alla grande solo produttori e speculatori..
    Contare su adeguate forniture sostitutive di gas dal Levante Med, sia via pipeline sottomarina che di GNL via nave, non è per “domani, nè dopodomani…”.. Inoltre c’è il contenzioso Libano/Stato ebraico e pure la Turchia.. Certamente Karish (a 75 km dalla costa) è a portata di svariati missili presenti in Libano e così pure le due o più navi a sua difesa (come è successo nel mar Nero). Insomma, nonostante le incessanti dichiarazioni ed il via vai aereo e ferroviario, la situazione rimane prob più grave di ieri e meno di domani. D’altronde non è chiaro se si voglia raggiungere, se non la “pace” anteguerra, almeno una stasi, oppure se ci si limiti a temporeggiare, a barcamenarsi e financo a “cavalcare” la crisi in corso, pronti a strumentalizzarla socio-politicamente e magari anche economicamente, conformemente ai due noti “refrains” e cioè che:
    a) ogni crisi è foriera di occasioni da cogliere.. e che
    b) “la distruzione (è) creativa” come Shumpeter dixit.. E immaginiamoci quanto business ci sarebbe (sarà?) anche nella ricostruzione di un’Ucraina ridotta in macerie.. In tutto e per tutto come si dicevano l’un l’altro alcuni dopo il terremoto dell’Aquila..

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