Le sirene di Gerusalemme Ovest annunciano al tramonto l’inizio dello Shabbat ebraico. Poco più tardi, dalla parte orientale della città arriva il colpo di cannone che chiude la lunga giornata di digiuno del mese di Ramadan. Per i musulmani inizia l’Iftar, il pasto serale pieno di luci e colori. Gli ebrei vivono in famiglia la cena rituale del venerdì sera, anticipata dal Kaddush, la preghiera che santifica lo Shabbat. I menù sono diversi: della tradizione ashkenazita o sefardita, degli ebrei di origine maghrebina, yemenita, lituana.
Quest’anno un venerdì di Ramadan è coinciso con l’inizio della Pasqua ebraica, Pesah, e con il Venerdì Santo dei cristiani d’Occidente. Dentro le mura ottomane la città vecchia con i suoi differenti quartieri, è stata un concentrato di queste diversità religiose, culturali, etniche: tradizioni, riti, sapori, suoni.
Che città eccezionale sarebbe Gerusalemme se le differenze di questo apparente melting pot non fossero divise dalla diffidenza, da un’ostilità senza fine, da un odio palpabile anche quando non produce scontri, feriti e morti come in questi giorni. Lo straordinario sovrapporsi delle date religiose non è una ragione di pace ma una causa perché lo scontro sia più duro.
C’è un conflitto quaggiù che la guerra in Ucraina ha emarginato dall’attenzione mondiale, ma che non ha smesso di essere combattuto. Non può competere con le distruzioni e le vittime dell’invasione russa ma è imbattibile quanto a durata: nessun altro conflitto può competere con l’ostinazione di questo.
La guerra ucraina è arrivata anche qui. Gli israeliani non sanno esattamente da che parte stare. Gli Stati Uniti sono i garanti della loro sicurezza. Ma la Russia ha un ruolo importante: al confine siriano tiene a bada gli iraniani. Poi ci sono ebrei russi ed ebrei ucraini, molti dei quai anche cittadini israeliani: Roman Abramovich è un oligarga di Putin ma anche il secondo uomo più ricco d’Israele.
I palestinesi – con chiunque parli: intellettuale, tassista, politico, venditore di hummus – sono con i russi: soprattutto perché sono contro gli americani che sostengono gli israeliani qualsiasi cosa facciano. Quando ti raccontano che presto il rublo sostituirà il dollaro e Putin prenderà il posto di Biden per garantire l’indipendenza palestinese, è facile scoprire che la loro non è speranza ma disperazione. Come quando ai funerali, per rendere più sopportabile la morte di un giovane palestinese ucciso dagli israeliani, gridano “Khaybar, Khaybar: ebrei, l’esercito di Maometto ritornerà!”. Nel 628 a Khaybar il Profeta aveva sconfitto le tribù ebraiche dell’Hijiaz.
Alcuni giorni fa, i giornali hanno pubblicato le foto delle tre vittime israeliane e del palestinese che ha sparato nell’attentato a Dizengoff, nel cuore di Tel Aviv. Le ho guardate a lungo. In quelle istantanee i primi sorridevano, l’attentatore no: era evidente la diversità di aspettative che la vita poteva riservare ai quattro protagonisti di quella tragedia. Ma erano tutti giovani e belli. I volti erano come rappresentazioni di un futuro certo, bruciato invece da questo conflitto che non finisce mai.
Tecnicamente è definito “conflitto a bassa intensità”; o “gestione del conflitto”, come gli israeliani chiamano questa situazione. In assenza di un orizzonte politico, l’occupante, la parte militarmente, economicamente, diplomaticamente di gran lunga più forte, pensa di accontentare l’occupato con qualche palliativo. In questi mesi gli israeliani hanno concesso migliaia di permessi di lavoro ai palestinesi; durante il mese di Ramadan non hanno chiuso Gerusalemme ai fedeli che venivano dai Territori per la preghiera sulla spianata delle moschee. Sul breve termine ha funzionato: durante il Ramadan dell’anno scorso era scoppiata l’ennesima guerra di Gaza, quest’anno per ora no.
Ma la gestione del conflitto a bassa intensità non ha impedito quattro attentati terroristici, 14 morti israeliani e almeno il doppio di palestinesi nei Territori: cioè la Cisgiordania dove le forze di sicurezza israeliane entrano ed escono quando vogliono, irrompono di notte nelle case, arrestano o uccidono “terroristi” che in un numero crescente di casi sono palestinesi innocenti.
Le origini diverse dei terroristi e i luoghi differenti degli attentati provano che ormai si tratta di casi isolati. La società palestinese da tempo non partecipa. La gente cerca soprattutto i modi per sopravvivere nell’occupazione, cioè nell’assenza dei diritti che gli ebrei delle colonie hanno; i giovani che possono emigrano in Canada e nel Golfo; gli altri si vestono e si armano da miliziani e marciano per le strade di Gaza o nei vicoli di Jenin, in una tauromachia infantile perché senza speranza di vittoria.
L’unica soddisfazione che i palestinesi conservano è gioire quando un “lupo solitario” uccide un ebreo. “Vogliamo che gli israeliani provino un po’ di quel dolore che proviamo noi ogni giorni”, aveva cercato di spiegare il professor Eyad Sarray, psichiatra di fama internazionale che viveva a Gaza. Lo andavo sempre a trovare quando entravo nella striscia. “Il peggior caso clinico che possa capitare”, mi disse una volta, “è quando l’individuo-nazione è senza speranza a causa del comportamento d’individui riconducibili a un’altra nazione. In questo caso solo il nemico possiede la medicina”. Sarray questo me lo disse più di vent’anni fa. Perché il conflitto è sempre uguale: eventualmente peggiora per un po’, ma nella sostanza è sempre lo stesso.
Nella primavera del 2022 la diagnosi di Sarray è sempre valida; e ancor più vero il rifiuto del potenziale guaritore, Israele, di somministrare la medicina che solo lui possiede. In questi giorni di attentati e scontri, sul conservatore Jerusalem Post Gershon Baskin, sionista pacifista e sostenitore della convivenza, scriveva che “nessuno dei media mainstream parla dei palestinesi uccisi quasi ogni giorno da Israele. Nessuno parla degli arresti di decine di palestinesi nel mezzo della notte, ogni notte. Nessuno parla di quanto la continua spoliazione di terra per costruire più insediamenti, abbia un impatto negativo sulle vite di migliaia di palestinesi”.
L’atteggiamento dominante fra gli israeliani è invece quello, sempre sul Post, di Karma Feinstein Cohen del board dei governatori dell’Agenzia Ebraica. Il conflitto con i palestinesi “deve essere concluso una volta per tutte con la vittoria di Israele”. La sua tesi ampiamente condivisa è che non bisogna più offrire ai palestinesi “proposte di pace esageratamente generose”. Non bisogna più parlare di “terra, frontiere, insediamenti, Gerusalemme o cosi detta occupazione”, offerte in passato ma rifiutate dai palestinesi.
E’ vero che i leader palestinesi siano specializzati nel rifiuto dei compromessi: probabilmente perché è l’occupazione israeliana che alimenta il loro potere. Senza, Hamas a Gaza e l’Autorità a Ramallah, non saprebbero come governare. Ma è solo una parte della verità: nell’unico decennio di speranza – quello di Oslo – le colonie ebraiche nei territori occupati raddoppiarono, anziché diminuire. E’ ciò che il mainstream israeliano tende sempre a dimenticare.
Per questo quando finirà la guerra in Ucraina, che sia presto o fra alcuni anni, il conflitto fra israeliani e palestinesi esiterà ancora, se qualcuno avrà la voglia di interessarsene. I palestinesi continueranno a non avere uno stato ma non smetteranno di esistere: alcuni prenderanno la strada del terrorismo, la maggioranza sopravvivrà nell’occupazione, l’odio rimarrà inestinguibile. E il sovrapporsi delle feste religiose sarà il pretesto fra i molti estremisti dell’una e dell’altra parte, per una nuova battaglia in nome di Dio.