“From the halls of Montezuma to the shores of Tripoli”, cioè dalla battaglia di Chapultepec, Messico, 1847, a quella di Derna in Cirenaica, 1805, è l’incipit dell’inno dei Marines scritto dal primo direttore della banda di quel corpo, un italiano. Come la Russia, come la Cina, come ogni impero della storia, l’America ha sempre avuto ambizioni espansive. La sfida di Vladimir Putin sull’Ucraina la costringe a chiarire una volta di più a se stessa, agli alleati e agli avversari, quale potenza voglia essere.
Se ha deciso di mostrare così chiaramente l’ambizione di ricreare una sfera d’influenza russa nello spazio un tempo sovietico; se per questo è pronto alle incertezze di un confronto militare in Europa, Putin non deve avere una grande opinione della potenza e della compattezza americane. Nel 1946, inviando il “Long Telegram” dall’ambasciata Usa di Mosca per svelare a Washington che Stalin non era più un alleato ma un pericoloso avversario, George Kennan scrisse anche cosa sarebbe servito all’America per affrontare la minaccia: “Molto dipende dalla salute e dal vigore della nostra società”.
Oggi, di fronte alla sfida di Putin, l’una e l’altra sono discutibili. L’anniversario del 6 gennaio ha reso ancora più evidente la trasformazione dei repubblicani nel partito di Donald Trump con visioni – perfino delle libertà – profondamente diverse da quelle democratiche. Di fronte alla pandemia Putin e il cinese Xi Jinping possono fare ciò che vogliono, anche nascondere i dati. Per combatterla Joe Biden deve affrontare la Corte Suprema, l’opposizione repubblicana, i no vax e alla fine l’impossibilità di fermare drasticamente il contagio diventa una sconfitta di chi governa.
Per capire cosa Biden debba fare per mostrare a Putin che la debolezza dell’avversario è l’ennesima valutazione sbagliata di un dittatore, serve ricordare i recenti passaggi della potenza americana. Gli anni ’90 sono stati il decennio sprecato dall’amministrazione Clinton, incapace di mettere a frutto la rara opportunità di essere la sola potenza globale. Opportunità sfumata con le guerre mediorientali di George Bush, ultimo rantolo di un neo-imperialismo diventato con l’invasione dell’Iraq una truffa da 3mila miliardi di dollari.
Barack Obama sarà ricordato per il suo comprensibile (dopo le guerre mediorientali di Bush) ma confuso disimpegno americano. Non reagì quando Bashar Assad usò le armi chimiche contro il suo popolo e favorì l’intervento russo in Siria. Il risultato fu che Putin aiutò il regime a sopravvivere, a usare ancora i gas, ad aprire la Siria all’influenza iraniana. Nel 2014, quando Putin annesse la Crimea e invase l’Ucraina orientale, Obama non reagì. Credeva che concentrare le forze sulla crescente sfida cinese, sarebbe bastato per affermare la potenza americana.
Sulla presidenza Trump c’è poco da dire. E’ probabile che se nel 2020 avesse rivinto le elezioni, oggi i carri armati russi sarebbero già a Kiev.
Dopo l’umiliante ritiro da Kabul, Joe Biden sta cercando di ricostruire la credibilità americana, nonostante i repubblicani e la pandemia. E senza distogliere lo sguardo dalla Cina. “Possiamo caminare e masticare una gomma allo stesso tempo”, diceva qualche giorno fa un diplomatico americano. Alla fine di questa settimana diplomatica a Ginevra, Bruxelles e Vienna, la risposta negativa alle pretese di Putin è stata ferma; l’invito a continuare la via negoziale con Mosca altrettanto chiaro.
Forse Putin continuerà per la sua strada: dal punto di vista interno, il gioco è rischioso anche per lui. Ma l’arma che Biden sta usando con maggior forza è quella della democrazia. Non è un’arma perfetta ma chiarisce la vera differenza dalla Russia di Putin. La Nato è un’alleanza democratica, si entra e si esce liberamente. Putin dovrebbe chiedersi perché siano 14 i paesi entrati nella Nato, esattamente per sfuggire alla sua ambizione di ricreare una sfera d’influenza russa in Europa. Le sue minacce hanno reso l’alleanza più compatta e spinto storici scettici come Finlandia e Svezia a valutare l’ingresso nella Nato.
Truppe Nato non sono mai intervenute per sedare le proteste popolari di un paese membro. Direttamente o indirettamente, i russi l’hanno fatto in Kazakhstan, Bielorussia, Armenia; hanno diviso la Moldova, attaccato Ucraina e Georgia. E ora hanno creato la verità alternativa di un’aggressione Nato alla Russia. In effetti nella storia comune di Stati Uniti ed Europa è difficile ritrovare la stessa compattezza di oggi: dovrebbe essere un altro elemento di riflessione per Putin, nella scelta fra dialogo e aggressione.
Il commento è stato pubblicato sul Sole 24 Ore il 14/1.