Era dai tempi della glasnost gorbacioviana che in Europa non si vedeva un tale vortice diplomatico: prima Russia-Stati Uniti a Ginevra; poi Russia-Nato (30 paesi) a Bruxelles; infine a Vienna Russia-Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, l’Osce (56 paesi dal Canada al Kazakhstan) in meno di una settimana. Tutto lascia credere, e bisogna sperarlo, che il confronto riprenderà in qualche modo anche nella prossima.
Non vi sarà sfuggito che gli interlocutori sono tanti ma dall’altro capo del tavolo c’è sempre la Russia. La Russia di Vladimir Vladimirovich Putin. In realtà più della Russia, il protagonista è lui. Probabilmente nemmeno i negoziatori di Mosca mandati a Ginevra, Bruxelles e Vienna sapevano con certezza cosa abbia in mente Putin.
John McCain, senatore repubblicano e vecchio combattente della Guerra fredda, sosteneva che la Russia era “una stazione di servizio mascherata da paese”: intendeva dire che oltre a gas e petrolio non c’era nulla. Barack Obama l’aveva declassata a “potenza regionale”: avendo nove fusi orari, a dire il vero gli interessi di quella potenza “marginale” non hanno mai smesso d’incominciare sul Baltico e finire dall’altra parte del mondo a Vladivostok, sul Mar del Giappone.
Evidentemente la Russia continua a contare qualcosa. Non ha importanza che McCain avesse qualche ragione: arsenale nucleare a parte, l’economia russa è da XX secolo. Conta che Putin sia comunque in grado di mettere sottosopra il vecchio continente, minacciando d’invadere l’Ucraina, un paese europeo: come facevano i totalitarismi appunto nel XX secolo. Il suo obiettivo è ricreare una Grande Madre Russia che non abbia mai fine.
Come se avesse qualche diritto naturale o vinto una guerra, Putin ha offerto condizioni, non proposte, per non invadere il resto dell’Ucraina che non aveva ancora occupato manu militari nel 2014. Dmitri Trenin del Carnegie Center di Mosca, il miglior conoscitore della Russia di Putin, sostiene che “le richieste di Mosca sono probabilmente un’offerta iniziale, non un ultimatum”. Ma 100mila soldati russi continuano a restare al confine ucraino. Equipaggiamento e armamento già trasferiti lì fanno prevedere una forza d’assalto di 175mila uomini.
Come Stalin a Yalta nel 1945, Putin pretende di negoziare il futuro dell’Europa solo con gli Stati Uniti; stabilendo chi nel fronte a lui avversario può allearsi con chi, chi con nessuno, e quali armamenti la Nato può schierare e dove. Per giustificarla, Putin ha condito la superbia con una serie di notizie false alla Trump (in realtà le fake news le hanno create molto prima i russi): che il governo di Kiev vuole fare un genocidio contro la minoranza russa, che la Nato sta per cooptare l’Ucraina, che i disordini in Kazakhstan erano sobillati dall’America. Nella conferenza stampa al ministero degli Esteri di Mosca, venerdì, Sergey Lavrov ha ribadito questa verità virtuale.
Nonostante Putin stia facendo di tutto per mostrare di avere torto, qualche ragione ce l’ha. Il suo tentativo di ritornare a prima della fine della Guerra Fredda è inaccettabile; ma ricostruire con la Russia un equilibrio europeo, è necessario.
E’ evidente che la Russia debba essere rassicurata; che si debba tornare agli accordi sui missili nucleari a medio raggio (500/5.500 chilometri) che Trump aveva annullato; che serva fare di più, cioè ricreare una struttura credibile di sicurezza e cooperazione continentale. Non un’altra obsoleta Yalta ma eventualmente un’altra Helsinki, come nel 1975, quando nonostante la Guerra Fredda i due blocchi costruirono un equilibrio duraturo.
Tuttavia, proprio perché uno dei due blocchi non esiste più, il modello cui tornare è quello che doveva rappresentare l’Osce. Oggi è un organismo pletorico e senza poteri. Ma quando venne creato e si chiamava Csce (Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa), sembrò un fatto straordinario. La Csce era già nei documenti di Helsinki. Ma nel novembre del 1990, quando a Parigi ne fu convocato un nuovo vertice, la Guerra Fredda era finita e il blocco sovietico era in avanzato stato di disgregazione.
La “casa comune europea dall’Atlantico a Vladivostok” doveva essere l’alternativa. Come corrispondente da Mosca andai a Parigi a seguire il vertice e ricordo ancora l’emozione di quei giorni. L’impero sovietico stava finendo. Eppure l’Occidente, compresa la super-atlantista Margaret Tatcher, non diede mai l’impressione di considerare Mikhail Gorbaciov uno sconfitto. Certo, Vladimir Vladimirovich non è Mikhail Serghevich; come George H.W. Bush aveva idee più chiare di Biden, Mitterand più gravitas di Macron ed Helmut Kohl di Olaf Schkolz.
Dopo di loro, probabilmente l’Occidente ha avuto troppa fretta di allargare a Est la Nato: ma i 14 paesi che da allora sono entrati a farne parte sono il frutto di una libera scelta. Vladimir Putin non può pretendere di tornare a qualcosa di simile a un’Europa prima della caduta del Muro di Berlino. Ma ha il diritto di ottenere solide rassicurazioni: sebbene nessuno lo stia minacciando. La Grande Madre Russia è parte della Storia; una grande Russia che col suo peso contribuisca alla stabilità internazionale, sarebbe una protagonista dei nostri tempi.