Ai tempi della sua “shuttle diplomacy” dopo la guerra del Kippur del 1973, Henry Kissinger sosteneva che la pace in Medio Oriente non fosse raggiungibile. Forse nemmeno desiderabile perché quando non è evidente chi sia il vincitore e chi lo sconfitto, un trattato di pace è sempre imperfetto e altamente fragile. Secondo l’ex segretario di Stato l’obiettivo doveva essere invece la creazione di un ordine regionale. Per conseguirlo serviva uno stabile equilibrio di potere che desse un sufficiente senso di giustizia a un sufficiente numero di stati.
Prima di essere americano e un protagonista politico di quel contesto, Kissinger è sempre stato un europeo e un raffinato storico della diplomazia del Vecchio Continente dal quale era emigrato. In questa sua visione di un sistema collettivo per il Medio Oriente, è chiara l’influenza dei suoi studi sulla pace di Westphalia del 1648 e sul Congresso di Vienna del 1815.
Ma sarebbe davvero possibile in Medio Oriente un sistema di sicurezza e cooperazione collettiva, simile alla Conferenza di Helsinki del 1975 che stabilì un accettabile livello di convivenza fra il blocco occidentale e quello comunista? Il solo pensarlo sembra ottimismo fuori luogo. Pensate ai conflitti in corso dallo Yemen alla Siria; alla concorrenza spesso sanguinosa fra Arabia Saudita e Iran, fra mondo sunnita e sciita, tra sunnismo ortodosso e quello rivoluzionario delle fratellanze musulmane; allo Stato Islamico duro a morire; al confronto senza uscita fra israeliani e palestinesi. Mentre i vertici della Lega Araba sono un annuale trionfo dell’inutilità, milizie ed eserciti sparano.
Eppure, pur in questo quadro sconfortante, qualche cosa si sta muovendo. I governi di Giordania ed Egitto riprendono a dialogare con il regime siriano, gli egiziani parlano anche con i turchi; gli Emirati che riconoscono Israele, si ritirano dalla guerra nello Yemen, aprono alla Turchia e al Qatar; al Cairo il governo fa riaprire gli uffici di al-Jazeera i cui corrispondenti erano tenuti in galera fino al giorno prima; in Arabia Saudita il vecchio e cauto re Salman sottrae l’agenda regionale al figlio Mohammed, pericolosamente ambizioso, lasciandogli quella comunque fondamentale della riconversione economica.
La parte che più da’ speranze in questo inatteso e solo iniziale grande appeasement (alcuni conflitti continuano) è la ripresa del dialogo fra Arabia Saudita e Iran. I due paesi hanno già firmato accordi commerciali, si parla di riapertura dei consolati e forse perfino delle ambasciate. Una piena normalizzazione delle relazioni sarebbe l’equivalente mediorientale delle stagioni di disgelo fra Usa e Urss in Europa. Molte cose cambierebbero nella regione, anche fuori dal Golfo.
Senza Teheran e Riyadh – e senza la constatazione di tutti che nessuno ha i mezzi per vincere sugli altri – una Helsinki in Medio Oriente sarebbe impossibile. La vera pacificazione dell’Iraq, della Libia e forse anche della Siria o il contenimento del militarismo di Hezbollah libanese, potrebbero esserne il risultato. Forse anche la questione del programma nucleare iraniano.
A fine agosto c’è stata una conferenza a Baghdad che aveva l’ambizione di ricalcare i passi di quella del 1975 a Helsinki, sull’Europa: l’importanza non è nei risultati, ancora vaghi, ma che ci sia stata e che vi abbiano partecipato tutte le potenze regionali protagoniste negative di questo ultimo caotico decennio.
Sostenuto dalla lunga frequentazione di questi paesi, rimango pess-ottimista: con una marcata tendenza al pessimismo ma aperto all’eventualità dell’ottimismo. Le cause di questa apparente resipiscenza mediorientale sono comprensibili. Re, emiri e rais devono chiudere o quanto meno cauterizzare i conflitti che sono stati la conseguenza perversa (voluta dai regimi in pericolo) delle Primavere arabe.
Poi c’è la transizione verso le energie rinnovabili. In questa regione come altrove, sarà molto più lenta di quanto pretenda Greta Thunberg. Ma è ineluttabile. I paesi con idrocarburi devono attrezzarsi per riconvertire le fonti della loro ricchezza e mantenere intatto il benessere nazionale; quelli senza devono trovare le risorse economiche per acquisire le tecnologie che imbrigliano sole e vento. Gli uni e gli altri devono comunque bloccare lo spreco di risorse delle guerre, ridurre le spese militari e creare sistemi economici che diano risposte ai loro problemi interni.
In tutta la regione non c’è un solo paese che possa essere preso ad esempio da imitare quanto a saldezza economica e stabilità politica. Il Qatar ha queste due qualità ma è troppo piccolo, troppo ricco di gas e di denaro per essere un modello per tutti gli altri. Con o senza transizione energetica la regione ha bisogno di riforme economiche, sociali e politiche per non risvegliare le Primavere arabe. Al momento tutte le cause di quelle rivolte inizialmente giovanili, sono ancora intatte: oggi molti dei regimi contro i quali la gente era scesa in piazza, sono più corrotti e illiberali di dieci anni fa.
Una Helsinki in Medio Oriente garantirebbe quella sufficiente sicurezza per un sufficiente numero di stati, invocata da Kissinger. Come fece il Congresso di Vienna nel 1815 per il Vecchio Continente, dopo la Rivoluzione francese e Napoleone. Tuttavia gli statisti di quell’epoca si occuparono di garantire un lungo periodo di sicurezza collettiva fra gli imperi, non le libertà degli individui e delle minoranze etniche dentro i confini di ciascuna di quelle potenze continentali. Queste rivendicazioni esplosero con le rivoluzioni del 1848.
Dando per scontato che prima o poi anche le Primavere arabe si risveglieranno – perché non sono state un episodio ma l’inizio di un processo politico che ha solo incominciato la sua marcia – il Medio Oriente seguirà gli stessi percorsi dalle guerre alla convivenza pacifica fra le nazioni, dall’autoritarismo alla democrazia dentro ogni stato?