La potenza senza amici

xiDemocrazia in mandarino si dice minzhu. Ma, spiega il sinologo Bruce Dikson in un saggio che offre una visione meno occidentalo-centrica della questione (“The Party and the People – Chinese Politics in the 21st Century”, Princeton 2021), pochi usano quel sostantivo come sinonimo di elezioni o stato di diritto. “Molti lo usano come risultato, cioè governare nell’interesse del popolo”.

E’ probabilmente stato un pio desiderio aiutare per un quarantennio la Cina a crescere, da Deng Xiaoping in poi, nella speranza che dopo il benessere sarebbe seguita una forma di democrazia. Forse non fa parte del bagaglio culturale del popolo cinese: sebbene Taiwan sia prospera e libera; e a Hong Kong conseguita la prosperità e una solida rule of law che garantiva la trasparenza del suo sistema giudiziario, si stava affermando la democrazia. Almeno fino al pesante intervento liberticida di Pechino sulle leggi dell’ex colonia.

Ci vuole tempo. E’ quello che mi dicevano negli anni ’90 e nel primo decennio di questo secolo quando visitavo spesso India e Cina per seguire il cammino delle loro riforme economiche. Sfamarsi è il primo dei diritti umani e noi lo abbiamo conseguito: gli altri seguiranno, ripetevano i miei interlocutori cinesi. Solo lo scorso febbraio nella Grande Sala del Popolo Xi Jinping aveva annunciato la fine della “povertà estrema” nelle campagne. Presumibilmente la fine della fame.

Ma segni successivi di altri diritti umani non se ne vedono. Al contrario, il potere del partito unico è sempre più brutale. Le immagini delle celebrazioni per il centenario del Partito comunista che abbiamo visto da piazza Tienanmen la settimana scorsa, a mio avviso erano spaventose.

La notizia dei 100 anni del Pcc, 72 dei quali al potere, è vecchia di almeno una settimana. Ma a partire dal suo nome, l’ambizione di questo blog è rimuginare sulle notizie e commentarle, non darne di nuove. Quelle immagini di soldati e civili irregimentati mi hanno ricordato le adunate mussoliniane di piazza Venezia e quelle di Norimberga.

Ci sono molti generi di dittatori. Sono tutti uguali nel soggiogare i loro popoli. Ma quelli convinti di avere un credito con la storia sono i più pericolosi, perché potrebbero pretendere di riscuoterlo, tentando di cambiare il sistema internazionale: provocando cioè una guerra. Stalin e Mao, per esempio, non avevano rivendicazioni storiche: la loro rivoluzione era prima di tutto uno strumento di conquista del potere nazionale per ricreare, con un altro nome, gli stati-impero che avevano ereditato.

Hitler, Mussolini, la casta militare giapponese, Nasser, lo Scià di Persia, Saddam Hussein, volevano cambiare l’architettura internazionale – o della loro regione – che non dominavano. Xi appartiene a questa categoria di dittatori che vogliono conquistare il mondo. In un’udizione in Senato, il direttore dell’Fbi Christopher Wray ha spiegato che in questo decennio – da che Xi è al potere – lo spionaggio economico cinese (su ricerca, innovazione, commerci e altro ancora) è aumentato del 1.300%. Ogni 12 ore il Bureau apre una nuova investigazione sulla Cina.

Anche per Xi l’ossessione è il passato: come fosse convinto che la legittimità del suo potere passi attraverso il controllo del passato e la rinascita di un impero glorioso. Già nel 2012, in un dei sui primi discorsi da leader del partito e della nazione – forse il primo – Xi si scagliò contro il “nichilismo storico”: cioè il tentativo di riconoscere gli errori compiuti da Mao e dal partito, ammettere che la Rivoluzione Culturale era stata uno sbaglio e il “Grande balzo in avanti” un disastro. Il passato del Pcc è invece senza macchia; quello provocato dagli altri, dall’imperialismo occidentale responsabile del “secolo dell’umiliazione”, dal 1839 al 1949, da vendicare.

Oggi in Africa la Cina non si comporta molto diversamente dalle vecchie potenze coloniali che quasi due secoli fa avevano brutalmente sfruttato la debolezza della dinastia morente dei Qing e poi della caotica repubblica. Comprare il debito di paesi alle soglie del fallimento, costruire solo con manodopera cinese infrastrutture di mediocre qualità, è l’equivalente del XXI secolo della politica delle cannoniere del XIX.

Fra un anno Xi festeggerà i dieci anni di potere assoluto e per la prima volta dai tempi di Mao, continuerà a governare, impedendo oltre al dibattito interno anche il ricambio generazionale nel partito. Al Pcc sono iscritti 92 milioni di cinesi, solo il 7% della popolazione. Xi non ne vuole di più perchè vuole avere una base attiva, controllabile e irregimentata nelle tremila scuole di partito del paese.

Nessuno al mondo guarda più alla Cina come a un amico. Certo: un paese col quale fare scambi, col quale è necessario dialogare sui grandi temi della globalizzazione. Ma non un amico. Anche l’Europa ha preso le distanze dalla Via della Seta: nessuno dubita più che sia un tentativo di controllo economico e politico del mondo. La fenomenale crescita cinese è guardata col rispetto dovuto: nel 1980 il Pil procapite era di 195 dollari, prima della pandemia di 10.261. Ma non è un modello per nessuno. Come scrive James Kynge, il principale sinologo del Financial Times, “i governanti cinesi navigano costantemente tra Scilla e Cariddi della crescita e del controllo” dell’economia. Libero mercato o no?

Nel suo viaggio fra i numerosi alleati europei, a giugno, Joe Biden aveva sostenuto che gli storici di domani “faranno le loro tesi di laurea su chi avrà vinto fra autocrazia e democrazia. Per non esagerare, aveva aggiunto che quello con la Cina è solo parte di un confronto più vasto con le dittature. Ma tutti sanno che è la Cina di Xi Jinping la vera, più seria avversaria del nostro futuro.

Http://www.ispionline.it/it/slownews_ispi/

Allego un commento sull’India pubblicato sul sito di Ispi

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/storia-del-g20-un-paese-alla-volta-india-30995

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