Non verrà il sereno dopo la tempesta di Gaza

   irondomeForse tra poche ore, eventualmente entro qualche giorno, l’ennesima guerra di Gaza sarà fermata dalla diplomazia internazionale: probabilmente l’Egitto e il Qatar con l’aiuto ora determinante, ora no, di Stati Uniti, Francia, Russia, Consiglio di sicurezza Onu. Un concerto globale per un conflitto apparentemente minore.

Hamas ha raggiunto i suoi obiettivi, come sempre conseguiti a spese della popolazione della striscia; Bibi Netanyahu ha impedito agli avversari interni di formare un governo senza di lui: si tornerà al voto (il quinto in poco più di due anni) e ora le sue chances sono aumentate; i militari israeliani stanno finendo di distruggere le infrastrutture militari di Hamas che avevano pianificato di eliminare. Da anni sanno che non è possibile fare di più: sradicare Hamas da Gaza è impossibile.

Chi più, chi meno, tutti soddisfatti. Ma quello che i negoziatori otterranno e i combattenti concederanno, è solo una tregua. “Calma in cambio di calma”, come tutte le volte precedenti. Questo significa che fra tre settimane, sei mesi o sei anni, la battaglia ricomincerà come è sempre accaduto: la ripetitività è la caratteristica più evidente del conflitto fra israeliani e palestinesi.

Solo una ripresa del negoziato sulla soluzione di questo conflitto potrebbe romperne la pericolosa monotonia. Martin Indyk, che questo negoziato lo ha condotto per conto di due presidenti americani, sostiene che il processo di pace fra i due avversari è come una bicicletta: se non pedali, cade. Se non c’è la diplomazia prima o poi ritornano le armi. https://www.foreignaffairs.com/articles/middle-east/2021-05-14/us-can-neither-ignore-nor-solve-israeli-palestinian-conflict

Ridare vita al processo di Oslo – due stati per due popoli – è estremamente complicato. Ma le varianti sono più d’una. L’idea di un solo stato israelo-palestinese dal Mediterraneo al fiume Giordano, con pari diritti per i due popoli, è un’ipotesi immaginifica: gli israeliani non l’accetterebbero mai, essendo la demografia a favore dei palestinesi. L’ipotesi di una federazione o confederazione sarebbe più abbordabile.

Ma sto parlando del sesso degli angeli: Oslo o qualsiasi altra ipotesi richiedono protagonisti con la volontà di negoziare un compromesso. Quanto meno di riaprire un dialogo. Hamas è a favore di un solo stato, ma islamico e palestinese. Prima delle proteste di Gerusalemme che poi sono finite nell’ennesima battaglia di Gaza, Bibi Netanyahu e la gran parte degli israeliani erano convinti di aver chiuso con la questione palestinese: mentre il mondo si era stancato della ripetitività del conflitto, loro non avevano mai fermato una silenziosa annessione amministrativa e territoriale fatta di espropriazioni, acquisizioni, allargamento delle colonie e arresti. Se a Gerusalemme fosse nato il governo “anti-Bibi”, il primo a guidarlo sarebbe stato Naftali Bennet, sostenitore dei coloni, dell’espulsione dei palestinesi e di una Grande Israele.

C’è infine Abu Mazen, cioè l’Autorità Palestinese di Ramallah, in Cisgiordania. La sua antica mancanza di fantasia e la rigidità negoziale ora sono enfatizzati dalla maggiore visibilità di Hamas: qualsiasi ipotetica concessione a favore di un negoziato sarebbe un tradimento, misurato con le migliaia di missili partiti da Gaza. Come sostiene Indyk, a 85 anni “Abu Mazen intende entrare nei libri di storia per essere stato il leader che ha rifiutato qualsiasi compromesso sui diritti palestinesi”. Lasciando però i palestinesi privi di ogni diritto.

E’ dunque comprensibile la riluttanza di Joe Biden che aveva finalmente detto qualcosa solo quando la tragedia di Gaza era al terzo giorno: di passaggio in una conferenza stampa dedicata al Covid, dimenticando di citare anche i palestinesi, mandando infine un inviato speciale di non alto profilo. Quanto poco Biden sia interessato alla questione lo dimostra anche l’assenza di un ambasciatore in Israele e di un console a Gerusalemme, cioè l’ambasciatore ombra americano presso l’Autorità Palestinese.

Ma anche per un’impresa così impossibile come questa c’è grande concorrenza. I russi giocano in casa in un paese fondato da russi e polacchi, nel quale quella di origini slave è la comunità più ampia fra gli ebrei. La diplomazia di Mosca dialoga direttamente con tutti; per parlare con Hamas gli Usa devono farlo attraverso egiziani e Qatar. Il grande limite russo è la disponibilità economica. Ogni anno gli Stati Uniti garantiscono a Israele un aiuto militare da quasi quattro miliardi di dollari e garanzie sul credito per otto.

Per la prima volta sulla secolare scena di questo conflitto sono arrivati anche i cinesi, proponendosi come mediatori e offrendo ospitalità a un dialogo tra i nemici. Fino ad ora la Cina si era tenuta lontano dalle guerre e dai problemi politici della regione: per loro il Medio Oriente era energia e commerci.

Russi e cinesi non si illudono di avere successo dove nove presidenti da Richard Nixon in poi, hanno fallito. Il loro scopo principale è il mondo, non la Palestina; è occupare qualsiasi scena abbandonata dagli americani o di scarso interesse per la percezione che oggi hanno della loro potenza: in questo conflitto, in Afghanistan, Libia, Siria. Ma chi si preoccupa per le conseguenze dell’apparente ritiro americano e l’arrivo di russi e cinesi, si tranquillizzi: neanche un marziano riuscirebbe a cambiare israeliani e palestinesi.

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