Bezos o la democrazia on demand

post2Non è necessario aver fatto una scuola di giornalismo per riconoscere che il Washington Post è un gran bel giornale. Un giornale liberal che per quattro anni ha contato una per una e documentato in una rubrica, tutte le bugie di Donald Trump. “Democracy dies in darkness” era lo slogan della sua più importate campagna pubblicitaria in quell’epoca buia, non ancora del tutto passata.

Pochi giorni fa, all’età di 66 anni, il direttore Martin Baron è andato in pensione. Anche il Times, concorrente newyorkese del Post, gli ha reso l’onore delle armi con un lungo articolo. E’ una perdita professionale importante: prima del Post, Baron era stato il direttore del Boston Globe, guidando un’inchiesta sugli abusi sessuali della chiesa cattolica del New England. Ne era stato fatto anche un film, “Il caso Spotlight”, premiato nel 2015 con due Oscar: il direttore era interpretato dall’attore Liev Schreiber.

All’inizio del 2013 Martin Baron era stato chiamato al Post da Katharine Weimouth, la quarta generazione della famiglia proprietaria del giornale. Sua nonna era Katharine Graham che aveva permesso e dato protezione politica all’inchiesta sul Watergate, a causa della quale Richard Nixon avrebbe dato le dimissioni. Andai a vedere “Tutti gli uomini del presidente” cinque giorni dopo essere entrato come abusivo (oggi si dice stagista, 100mila lire al mese), nella cronaca milanese del Giornale di Montanelli. E il Post divenne la testata dei miei sogni di giovane giornalista.

Ma quando arrivò Baron non era più il giornale di Bob Woodward, Carl Bernstein e della pubblicazione – insieme al New York Times – dei Pentagon Papers che svelarono gli errori americani in Vietnam. Il declino incominciò negli anni ’90, riportando il Post al suo iniziale posizionamento di testata locale. I giornalisti scesero da 900 a 580. Che giornale veramente essere, era sempre stato il dilemma del Post. Come diceva Donald Graham, il proprietario di allora, “siamo un giornale locale in un luogo che accade sia la capitale degli Stati Uniti”.

Meno di un anno dopo la nomina di Martin Baron, alla fine del 2013 il Post fu acquistato da Jeff Bezos che impose da subito una nuova strategia di business e di giornalismo. Se il padrone di Amazon compra un giornale, lo spazio limitato del Distretto di Columbia fra Virginia e Maryland, non gli può bastare. Col suo arrivo il giornale fu rilanciato a livello locale, nazionale e internazionale. La newsroom ora ha 1.010 giornalisti, il doppio del 2013; gli uffici di corrispondenza all’estero sono 26. La tiratura cartacea si è dimezzata a 320mila copie ma gli abbonati sul digitale sono tre milioni, e 100 milioni i visitatori del sito ogni mese.

Bezos ha accentuato la linea liberal del giornale. Quando sono iniziate le proteste Black lives matter è stata anche creata la redazione “Diversità e inclusione”, la prima nel paese, affidata a una capo redattrice afro-americana.

Sfortunatamente, se “Democracy dies in the Darkness”, la sensibilità democratica di Jeff Bezos scompare nell’oscurità appena finisce di leggere il suo giornale e torna a fare l’uomo d’affari. A quel punto la democrazia diventa on demand, un’opzione.

Un articolo che non ho letto sul Post (forse mi sarà sfuggito), racconta che i lavoratori del centro Amazon di Bessemer, Alabama, stanno cercando di organizzarsi in sindacato. Per decidere se farlo, hanno lanciato un referendum per posta. L’azienda dell’editore liberal/trangugia&divora, ha fatto di tutto per impedirlo. Prima ha ricordato che il minimo salariale che garantisce, è già superiore alla media del paese (come se un sindacato servisse solo a quello); poi ha creato un sito anti-sindacato e riempito la cittadina di manifesti di propaganda per il no. Da ultimo ha anche cercato d’imporre come valido solo il voto in presenza e non anche quello per posta: come Donald Trump.

Durate la campagna presidenziale per mesi avevo letto sul Post articoli durissimi contro i governatori repubblicani che limitavano in ogni modo il diritto di voto. Con l’approvazione della Corte Suprema a maggioranza ultra-conservatrice, Georgia e Arizona hanno già ricominciato ad approvare nuove restrizioni: hanno visto cosa accade al partito repubblicano quando gli americani votano in massa.

I grandi imprenditori del web, diventati ancora più ricchi con la pandemia, non sembrano molto diversi dai padroni delle ferriere del XIX secolo, prima della legge Sherman contro i monopoli industriali. Sono relativamente giovani e dovrebbero imparare da chi è molto più anziano. Da Warren Buffett, per esempio, il più grande investitore finanziario degli Stati Uniti che, diversamente da loro, le tasse chiede pagarle. E da Joe Biden.

Voglio essere davvero chiaro”, ha detto il presidente sulla vicenda dell’Alabama. “Non dipende da me decidere se qualcuno deve creare un sindacato. Ma voglio essere ancora più chiaro: non dipende nemmeno da un datore di lavoro”. E giunto al fin della licenza, ha dato la stoccata: “Non ci dovrebbe essere intimidazione, coercizione, minaccia né propaganda anti-sindacale. Nessun dirigente dovrebbe discutere con i dipendenti delle loro preferenze sindacali”.

Alla fine Amazon ha fatto un passo indietro. Ma ormai era già sprofondata nel fango e io avevo disdetto il mio abbonamento al Post.

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