L’ostinazione infantile di Donald Trump nel rifiutare la sconfitta; il continuo oscillare fra il tragico e il ridicolo del suo avvocato, Rudy Giuliani, e di una corte dei miracoli ben pagata; la quotidiana umiliazione di un regime democratico praticata non dai trolls di Vladimir Putin ma dal Partito repubblicano. E’ una serie Tv quella a cui assistiamo, una satira del potere? O è la realtà?
Non è la prima volta che l’America ci lascia a bocca aperta. Il Paese che sprofondava nella guerra del Vietnam era lo stesso che approvava il Civil Rights Act contro ogni discriminazione e puntava alla Luna. L’America nella quale lo spropositato potere dell’apparato militare-industriale non viene denunciato da un pacifista ma dal più importante dei suoi generali-presidenti (Eisenhower). L’America del primo emendamento: libertà di espressione e di stampa; e del secondo: la libertà di portare indiscriminatamente armi e organizzare milizie. Gli Stati Uniti che affermano il diritto di voto e che limitano questo diritto. I 79,7 milioni di elettori di Joe Biden e i 73,7 di Donald Trump.
Forse è per queste dicotomie sistemiche che dopo la fine della Guerra Fredda nessuno dei paesi passati dal totalitarismo alla democrazia, ha scelto il modello costituzionale americano. Cioè del paese che più di tutti aveva contribuito a liberarli.
La migliore spiegazione di questa incoerenza permanente è di Barack Obama. L’ha data nell’intervista al direttore di The Atlantic Jeffrey Goldberg, uscita in questi giorni. “L’America – ha detto Obama – è il primo esperimento concreto di costruzione di una grande democrazia multietnica e multiculturale. E ancora non sappiamo se può tenere. In giro non ce ne sono stati abbastanza (di esperimenti, n.d.r.) né per un tempo sufficiente perché si possa dire con certezza che funzionino”. E’ vero. Un altro grande paese multietnico e multiculturale è il Brasile ma ha sempre faticato a funzionare: spesso non funziona affatto. E l’India. Ma il premier nazional-induista Narendra Modi sta smontando quell’ ”Unità nella diversità” sulla quale il Mahatma Gandhi e Jawaharlal Nehru avevano creato la nazione.
Pochi giorni fa ho partecipato a un dibattito sul post-elezione, organizzato dall’US-Italy Global Affairs Forum. “What Happens Now” era il titolo. La mia tesi era che l’America avesse bisogno di una destra costituzionale, democratica e internazionalista, cioè del Partito repubblicano tradizionale. E che anche noi alleati, europei o asiatici, abbiamo ancora bisogno di un’America internazionalista perché il mondo oggi non è meno pericoloso dei tempi della Guerra fredda. Probabilmente lo è di più.
Da New York un collega di Newsmax ha risposto prendendo l’esempio di James Baker sul quale è appena uscita una corposa ma splendida biografia (“The Man Who Ran Washington – The Life and Times of James A. Baker III”). Chief of staff della Casa Bianca di Ronald Reagan e soprattutto segretario di Stato del successore George Bush, il texano Baker è stato un simbolo dell’internazionalismo americano e del suo miglior interprete: il Partito repubblicano. Bene: quel partito, diceva il collega di Newsmax, è finito. I repubblicani di oggi sono quelli che fanno quadrato attorno a Trump e che non hanno alcun interesse per tutto ciò he esiste dall’altra parte dei due oceani.
Newsmax è il gruppo editoriale ancora più a destra di Fox, col quale il presidente sconfitto pensa di creare una “Trump TV” per riprendere l’assalto alla Casa Bianca. Ma penso che il collega avesse ragione. Soprattutto perché è una nostra prospettiva pensare che l’internazionalismo sia la prerogativa degli Stati Uniti. Con la fine della Guerra Fredda, per gli americani la politica estera non è un tema elettorale, contano le grandi questioni interne: ricostruzione delle infrastrutture obsolete, disparità sociali, scontro razziale irrisolto, ora anche la pandemia.
Il primo George Bush è stato l’ultimo presidente ad avere cultura ed esperienza internazionali: con Jim Baker gestì il disgregamento dell’Urss e la riunificazione tedesca senza che in Europa scoppiasse la terza guerra mondiale; liberò il Kuwait ma non occupò l’Iraq; spinse israeliani e palestinesi alla trattativa di pace. Perse le elezioni del 1992 perché Bill Clinton, venuto dall’Arkansas, non sapeva niente di estero e aveva giocato la sua campagna sull’economia. Poi toccò a George W., che non aveva l’esperienza diplomatica del padre: l’11 settembre ha radicalmente cambiato le priorità della sua presidenza in origine concentrata sugli affari domestici. Barack Obama, anche lui senza curriculum internazionale, in parole e opere ha preso le distanze da quel “Washington playbook” col quale il potere americano rispondeva ad ogni emergenza usando più la forza militare che la diplomazia. L’idea che gli Stati Uniti dovessero uscire dalle “guerre senza fine” del Medio Oriente, è sua: Donald Trump l’ha enfatizzata. Di quest’ultimo è inutile descrivere la qualità della sua Twitter diplomacy. Quattro anni fa gli americani avevano scelto lui e non Hillary Clinton che era stata per otto anni un’attiva first lady e per quattro segretaria di Stato.
Ora c’è Joe Biden che invece il mondo lo conosce. Gli elettori però non lo hanno scelto per questo: hanno votato contro Trump e in favore della decenza e della moderazione del democratico. E’ fatale che il presidente della prima potenza debba comunque occuparsi delle crisi internazionali, che prima o poi il mondo lo richiami al suo ruolo. E come è accaduto a Clinton, Bush il minore e a Obama, è comunque la carica che alla fine definisce il leader e i suoi comportamenti. Ma l’America e il mondo stanno cambiando ed è meglio che la cara vecchia Europa incominci a farsi crescere i muscoli.
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Allego un commento uscito sul Sole 24 Ore, dedicato a Joe Biden e il Medio Oriente.