“To stop Iran bomb, bomb Iran”, scriveva con pregio della sintesi John Bolton tre anni fa, in un contributo chiestogli dal New York Times. Perché tutta questa inutile diplomazia attorno al programma nucleare di Teheran?, era il pensiero dell’uomo che oggi è il consigliere alla Casa Bianca per la sicurezza nazionale: bombardiamoli, cambiamo il loro regime.
E’ una costante della vita politica di Bolton, una propensione alla guerra per chi invece dovrebbe scongiurarla, che nel mondo reale non ha uguali. Per trovare qualcuno di simile bisogna cercare nella finzione cinematografica; andare a Peter Sellers nel ruolo del dottor Stranamore (Il sottotitolo del film di Stanley Kubrick è “Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba”).
Nonostante l’evidenza del fallimento dell’invasione in Iraq, della quale è stato corresponsabile con Paul Wolfowitz, Dick Cheney, Don Rumsfeld e altri; a dispetto del caos seguito alla rimozione di Gheddafi in Libia, del quale è stato testimone entusiasta, con quei suoi baffi antiquati da sceriffo di Tombstone Arizona, John Bolton continua a credere all’utilità del “regime change”.
In Medio Oriente solo l’israeliano Bibi Netanyahu riesce a stargli dietro. Quella regione è una miniera inesauribile per Bolton, sebbene la sua politica delle cannoniere sia per tutte le latitudini. Anche in Venezuela, dove “ogni opzione è sul tavolo”, come ha ricordato il vicepresidente Mike Pence che al reazionarismo di Bolton aggiunge un pericoloso uso politico del fondamentalismo religioso.
Qualche giorno fa Bolton ha lanciato un nuovo allarme: gli iraniani stanno per attaccare gli Stati Uniti da qualche parte del Medio Oriente, in qualche modo, forse con le guardie della rivoluzione, i Pasdaran, forse con le sue milizie sciite o forse con i suoi sommergibili tascabili nel Golf. Le modalità sono rimaste estremamente vaghe come la fonte dell’informazione. Secondo la televisione israeliana Channel 13, è l’intelligence di Gerusalemme. La stampa è rimasta uno dei caposaldi della democrazia d’Israele, contro il dilagare del nazionalismo e dell’estremismo religioso.
Quando si apriranno gli archivi si potrà forse sapere quale fu il ruolo d’Israele nella decisione americana d’invadere l’Iraq. Gli israeliani, soprattutto Bibi Netanyahu, sanno cosa vogliono sentirsi dire gli americani. E lo dicono se questo combacia con quello che pensano sia il loro interesse nazionale.
Credendo a tutte le canne fumanti che servono al suo disegno, Bolton ha spedito nel Golfo una squadra navale guidata dalla portaerei Lincoln. Intanto il segretario di Stato Mike Pompeo è andato in giro per il mondo a cercare adesioni a questa dimostrazione di muscoli. Nel 2003 l’elegante Colin Powell era riuscito ad arruolare solo l’inglese Tony Blair. Pompeo che nella figura assomiglia a un sottosegretario sovietico dell’era brezneviana, non ha convinto nemmeno gli inglesi.
Il senatore democratico Tom Udall ha accusato “la squadra dei bellicosi consiglieri di politica estera” di Trump, “che grida al mondo intero il suo desiderio per una guerra anticostituzionale e non autorizzata all’Iran”. E’ un déjà vu, sembra di rivivere i mesi precedenti all’invasione dell’Iraq.
A Teheran non sono rimasti a guardare. Il presidente Hassan Rouhani ha annunciato che, come l’America, anche l’Iran esce dall’accordo sul nucleare: esce ma violandone solo marginalmente l’impegno, in attesa di un segnale dall’Europa. Deve essere il frutto del compromesso fra l’ala moderata che Rouhani rappresenta e i più potenti falchi (clero, Pasdaran e forze armate) che hanno sempre detestato l’accordo quanto il presidente americano. Se chiedeste ai Pasdaran di valutare da1 a10 la famosa dichiarazione di Trump – “Il peggiore accordo del mondo” – voterebbero 10.
E’ del tutto plausibile che le Guardie della rivoluzione e il resto del potere clericale vogliano anche loro forzare la situazione, provocando americani e israeliani. L’economia iraniana è al collasso; e le loro ambizioni geopolitiche almeno in Medio Oriente, non son meno ambiziose di quelle di Bolton. Reazionari di tutto il mondo unitevi, dunque.
Resta da spiegare quale sia il nesso fra un presidente degli Stati Uniti che vuole disimpegnarsi dalle complessità del mondo, da un lato; e dall’altro i suoi stessi weet combattivi e la squadra di consiglieri che fa rullare i tamburi di Guerra dal Medio Oriente al Caribe. Azzardo due ipotesi.
La prima sono l’impreparazione e l’instabilità caratteriale di Trump. La seconda è l’accerchiamento sempre più stretto alla sua presidenza. Presentando il Rapporto Muller, la cui diffusione integrale è stata bloccata dal veto presidenziale, il ministro della Giustiziane ne aveva travisato il senso: l’ipotesi che Trump abbia cospirato con i russi per vincere le elezioni non è caduta ma, al contrario, è ancora reale. Intanto il New York Times ha spiegato perché il presidente si rifiuti di mostrare le sue dichiarazioni dei redditi: in un decennio “il businessman più bravo del mondo” (parole sue) ha accumulato più di un miliardo di perdite.
Da che esiste il potere, la politica estera, soprattutto le guerre, sono sempre state il modo migliore per far dimenticare i problemi interni. Quelle su Trump sono ipotesi, naturalmente. Tuttavia, diceva il cattolico Andreotti, a pensar male si fa peccato. Ma ci si azzecca sempre.
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