Se c’è un luogo fuori dai confini del nostro paese dove si gioca l’interesse nazionale, quello è la Libia: sicurezza, terrorismo, questione migratoria, fonti energetiche. Non c’è un altro luogo così importate nel Mediterraneo e nel resto del mondo.
La rivelazione dell’agenzia Bloomberg sembra smentire tutto questo: contrariamente alle dichiarazioni del suo segretario di Stato Mike Pompeo, il presidente Trump sosterrebbe il brutale assalto a Tripoli del generale Haftar. Alla fine dell’anno scorso, tornando dalla visita ufficiale a Washington, Giuseppe Conte ci aveva venduto per fatta una “cabina di regia” italo-americana, vagamente anti-francese, per risolvere la questione libica. Non sembra che gli obiettivi da raggiungere siano così comuni.
E’ inoltre vero che l’Italia ha una posizione troppo sbilanciata a favore del governo di Fayez al Sarraj, ignorando la forza e il ruolo di Khalifa Haftar. Ma a Roma questo errore avevano incominciato a farlo già i governi a guida democratica. Dentro e fuori il Consiglio di sicurezza dell’Onu, ogni paese interessato alla Libia per ragioni geopolitiche, energetiche o per entrambe le ragioni, gioca la sua partita: raramente in reale cooperazione. Credo dunque che anche il governo italiano abbia il diritto e il dovere di giocare la sua.
Donald Trump si sarebbe schierato dalla parte di Haftar – cioè l’aggressore – sollecitato dall’egiziano Abdel Fattah al Sisi. Il fronte in fondo è coerente: sia per la profonda illiberalità dei partecipanti che per i comuni interessi non solo in Libia ma nel resto del caotico Medio Oriente. C’è l’Egitto del nuovo dittatore a vita al-Sisi che dichiara “terrorista” chiunque gli si opponga. C’è il pericoloso mestatore Mohammed bin Salman, il principe ereditario saudita che gli oppositori li fa smembrare o torturare, che trasforma lo Yemen nella peggiore crisi umanitaria mondiale, che con l’ambizione di conquistare il Medio Oriente, lo destabilizza. E c’è il suo sodale in pericolosità Mohammed bin Zayed, il principe ereditario di Abu Dhabi. Il loro modello libico è il generale Haftar, piccolo Napoleone dalle grandi ambizioni.
A parte il suo discutibile passato, Haftar ha 75 anni ed è molto malato. Ma per i suoi protettori ha poca importanza. A loro interessa controllare la Libia che un giorno uscirà dal suo caos; e togliere di mezzo la loro grande nemesi: i Fratelli musulmani che sono parte del governo di Tripoli. La Fratellanza non è un movimento globale dell’Islam che predica tolleranza e democrazia (sebbene avesse vinto le uniche elezioni democratiche mai svoltesi in Egitto). L’involuzione ottomana della Turchia di Erdogan, un convinto Fratello, giustifica abbondantemente i sospetti verso quel movimento.
Sono i Fratelli musulmani i “terroristi” che spingono Haftar a marciare su Tripoli per conto dei suoi protettori. Ma il suo ufficiale pagatore è l’Arabia Saudita wahabita, il paese più oscurantista del mondo: solo l’Isis predica un modello d’Islam più intollerante del suo. Nella guerra civile in Siria sauditi ed Emirati – non meno del Qatar – hanno armato le milizie del peggiore terrorismo islamista.
Questi sono Haftar e i suoi padrini. E questa è la partita che stanno giocando in Libia. Di fronte a loro l’opaco Sarraj sembra un Thomas Jefferson. Donald Trump, che di tutto questo non sa nulla, partecipa come un elefante in una cristalleria. Ma lui è probabilmente convinto di fare la cosa giusta: è in un consesso di iper-sovranisti nemici dell’Onu (che riconosce il governo Sarraj) e felici di mettere in difficoltà l’Europa.
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