La guerra civile libanese è durata 15 anni e sei mesi, dal 1975 al 1990. Ufficialmente è divisa in quattro fasi ma le guerre sono state molte di più e per molte cause diverse: all’inizio, nella prima, i palestinesi erano protagonisti; nell’ultima, tre lustri più tardi, erano completamente spariti dalla scena. Morirono circa 200mila persone, in gran parte civili e più di un milione diventarono profughi o sfollati: allora il paese aveva due milioni e mezzo di abitanti.
Quasi 28 anni più tardi le ferite non si sono sanate. I conflitti successivi fra Israele ed Hezbollah, quelli fra Hezbollah e partiti sunniti, la catena di omicidi politici organizzata dalla famiglia Assad ed eseguita da Hezbollah, le tensioni fra milizie religiose a Tripoli e Sidone, non sono che la continuazione della grande destabilizzazione apparentemente chiusa nel 1990. I libanesi non sono così onorati come potremmo pensare se “L’intruso”, il film che parla dei rancori rimasti sotto traccia, è in corsa per gli Oscar.
Sulla vecchia Linea Verde, fra il quartiere musulmano di Basta e quello cristiano di Achrafieh a Beirut, c’è una bellissima casa la cui facciata era stata scorticata dai proiettili delle guerre civili. Qualche tempo fa è stata ristrutturata, lasciando intatti i segni del conflitto perché ne diventasse il ricordo. Beit Beirut – questo è il suo nome, la casa di Beirut – è chiusa al pubblico perché sono pochi coloro che vogliono ricordare.
Scusate la premessa troppo lunga: è il mio amore per Beirut e il ricordo di un conflitto che ho visto con i miei occhi a lungo, all’inizio della mia carriera da corrispondente di guerra. Ma ho pensato sarebbe stata una buona introduzione alla guerra civile siriana, anche questa entrata ormai nella quarta fase. Come fu in Libano, una fase completamente diversa dalla prima, iniziata nel 2011 con le manifestazioni contro il regime. Più passa il tempo, più mi convinco che anche la guerra civile siriana durerà diversi lustri. Sarò il primo ad essere felice se gli eventi mi smentiranno. Ma ho paura che non accadrà.
Una piccola prova del mio pessimismo è un articolo da Aleppo di “al-Monitor”. E’ l’elenco delle milizie siriane che hanno deciso di combattere ad Afrin dalla parte del Free Syrian Army (FSA) e i turchi, contro i curdi siriani delle People’s Protection Units (YPG), sostenuti dagli americani: “Brigata Mashaal Tamm, Kurdish Front, Brigata Saladin e centinaia di combattenti curdi in altre fazioni come Faylaq al-Sham, Brigata Sultan Murad, Fronte del Levante e Ahrar al-Sham. Queste fazioni includono arabi, curdi e turkmeni”. Curdi siriani contro curdi siriani, dunque. E turchi contro americani, potenzialmente: cioè i due eserciti più potenti dell’Alleanza Atlantica. Potremmo aggiungere che nella mischia ci sono anche i russi che sono dalla parte del regime di Damasco, un po’ di quello turco e fino a poco tempo fa avevano sostenuto l’YPG nella lotta contro lo stato islamico. E c’è Assad che ha mandato ad Afrin le sue milizie alleate a combattere contro i turchi, trovandosi implicitamente dalla stessa parte degli americani.
Ci sono zone della Siria come i governatorati di Raqqa e Deir Ezzor, nelle quali non si combatte più. Ciononostante i profughi non ritornano perché le città sono distrutte e non c’è ricostruzione. E perché la guerra civile ha creato nuove realtà politiche: dove un tempo amministrava una fazione, ora al potere ce n’è un’altra.
Nella battaglia di Afrin, nella quale è difficile capire chi combatta con chi contro chi, sale il numero delle vittime civili. Ancora più numerose sono nell’altro fronte di Ghouta e Damasco, al Sud. E’ la natura della guerra civile che altrimenti non avrebbe questo nome, a qualsiasi latitudine la si combatta: il civile – donne e bambini compresi – è abile e arruolato dal nome che porta, dalla fede in cui crede, dal villaggio o il quartiere in cui abita. Il regime che bombarda Ghouta e gli islamisti che lanciano razzi su Damasco, non si chiedono dove cadranno i loro ordigni: ovunque esplodano colpiscono il nemico.
Oltre ad essere molto bello, è illuminante “La conchiglia: i miei mille anni nelle prigioni siriane”, di Mustafà Khalifa (Castelvecchi, 2014). E’ un romanzo autobiografico nel quale il protagonista, cioè Khalifa, è accusato dal regime socialista di Hafez Assad di essere un fratello musulmano, e rinchiuso nella spaventosa prigione di Tadmor nel deserto bollente di giorno e gelido di notte. Quando Khalifa nega l’accusa e si professa ateo, il suo essere “senza Dio” lo rende inviso ai carcerieri – che sono socialisti ma di un paese musulmano – e agli altri prigionieri della fratellanza islamica.
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