Reengage, impegnarsi di nuovo, tornare a guidare. E’ la parola più usata a Washington: dagli esperti di strategia e di diplomazia, dai commentatori dei giornali, nei dibattiti per le primarie presidenziali, attorno all’amministrazione Obama e dai politici dei due schieramenti. Anche se per la maggioranza dei candidati alla corsa repubblicana, rimpegnarsi è solo sinonimo di bombardare tutti i nemici reali e presunti.
Le immagini di Parigi che vengono dopo quelle di Beirut, dei resti dell’aereo russo sparsi nel Sinai, dei giovani uccisi nella piazza di Ankara; quelle di mesi e anni di brutalità indicibile che hanno devastato l’Irak, spinto la Libia nell’anarchia e costretto alla fuga la metà della popolazione siriana, rendono la posizione americana sempre più insostenibile.
Il disimpegno dal Medio Oriente degli Stati Uniti voluto da quella che forse un giorno sarà chiamata con indulgenza Dottrina Obama, non era una fuga. Era la conseguenza di anni di avventure militari dell’amministrazione repubblicana. Non aver bombardato la Siria quando fu scoperto l’arsenale chimico di Bashar Assad, fu una scelta coerente. Leading from behind, la formula sfuggente creata per spiegare che l’America non c’era ma c’era, cercava una comprensibile via d’uscita dagli impegni internazionali.
Tutto aveva una logica ma nonostante i progressi nel corso dei secoli, il mondo continua ad avere tendenze hobbesiane: richiede il dispiegamento della forza per concedere credibilità, vuole che esista il più forte dietro o contro il quale gli altri adattano le loro politiche. Per quanto la Dottrina Obama fosse giustificata, la sua presidenza non ha esercitato (fin ora) quello che il mondo si aspetta faccia l’America, non fosse altro che per contrastarla: una politica di potenza. Putin l’ha fatta, in realtà molto più di quanto la Russia abbia la forza per esercitarla, e nonostante ci sia molto fumo sparso con abilità, è tornato a essere un protagonista: ammirato e/o temuto e detestato. Barack Obama continuava a degradare la Russia a “potenza regionale” calcolando il suo Pil sceso ai livelli della Spagna, ma intanto la Russia ha eroso lo status di “nazione indispensabile” che sono convinti di essere gli Stati Uniti.
Per un caso che probabilmente i terroristi non avevano calcolato, la tragedia di Parigi coincide con un appuntamento internazionale di grande rilievo, il G20. E con la ripresa a Vienna del negoziato sulla Siria. Nell’uno e nell’altro, americani e russi sono protagonisti. Al G20 in Turchia i secondi non dovevano esserlo, dato il loro Pil, ma i fatti di Parigi hanno rubato la scena al primato dell’economia. E se ora i temi primari sono il terrorismo, se e come sconfiggere l’Isis, la stabilizzazione dei conflitti in Medio Oriente, allora la Russia si è ritagliata il ruolo da co-protagonista.
In tutti i loro vertici, i venti presunti più potenti selezionati con qualche arbitrarietà, discutono ma non decidono quasi mai: il loro è un consesso, non un direttorio, una struttura di governo del mondo. Ora però c’è un nemico comune, anche per quei paesi lontani dal Medio Oriente perché un terrorismo di matrice millenarista non ha confini. Il massacro di Parigi ha reso l’Isis, i suoi foreign fighters e i lupi solitari che vivono anche nel continente americano, in Russia e Australia, il nemico evidente, visibile, presente in carne e ossa, ineludibile. Nemmeno quei paesi mediorientali che hanno fatto della geopolitica con il califfato, possono più continuare in questa ambiguità. Purché americani e russi abbiano la forza di trasformare il G20 da una specie di sintesi dell’Onu e della sua inefficacia, in un concerto di nazioni. Serve un ordine internazionale che duri e trovi soluzioni per sconfiggere un’organizzazione terroristica diventata ormai globale.